Sempre più difficile per chi scrive di musica trovare nuovi aggettivi e termini elogiativi quando si parla di Tim Buckley, uno degli artisti più straordinari che abbiano attraversato la scena musicale a cavallo fra i Sessanta e i Settanta.
Nell’era digitale di internet, insieme a Nick Drake è probabilmente il musicista che ha ricevuto la più grande rivalutazione, oltre che molti attestati di stima da pubblico e critica che tanto gli sono mancati quando era in vita.
Sì, perché al pari del grande inglese di Tamworth-In-Arden anche Buckley ci ha lasciato molto presto, a soli 28 anni, quando aveva ancora tanto da dare al mondo della musica.
In questi ultimi anni la sua figura è diventata oggetto di culto, non più soltanto per i soliti ricercatori di gemme preziose e collezionisti di vinile ma anche per un pubblico di giovani e meno giovani che sia pur tardivamente ha scoperto una delle voci più sublimi mai ascoltate negli ultimi 50 anni.

Parte del merito di tutto questo è da ascriversi al compianto figlio Jeff che con un album come “Grace” (1994) ha fatto sì che pure il nome dell’illustre genitore venisse ricercato e riscoperto da una grande fetta di ascoltatori. Questa sorta di resurrezione musicale di Tim Buckley ha creato un vortice di interesse incredibile intorno alla sua figura al punto che adesso le pubblicazioni postume a suo nome superano numericamente quelle ufficiali, ovvero i nove album di studio incisi nel periodo 1967-1974.
Registrazione d’ottimo livello considerato che stiamo parlando del 1968, master di Bill Inglot, scelta delle covers davvero azzeccata, le esecuzioni sono d’una forza e di un pathos pazzeschi, c’è tanta improvvisazione in questi nastri e la voce del Buckley ventenne è ai suoi massimi livelli espressivi.

Edsel/Manifesto Records

In “Happy this Way” la Owen rende con il suo particolarissimo senso dell’umorismo e la sua ruvida emotività un omaggio alla sua nativa Inghilterra allo stesso tempo toccante e divertente.
Coprodotti dalla Owen e da John Fischbach – l’ingegnere del suono che negli anni Settanta ha realizzato Songs In The Key Of Life, uno dei più grandi successi di Stevie Wonder – i brani di questo album spaziano dall’upbeat “Painting by Numbers” ai toni epici e alla coinvolgente melodiosità imperdibile di “Conway Bay”. Tra i momenti più significativi di Happy This Way meritano di essere segnalati le interpretazioni di Julia Fordham, Ian Shaw, Richard Thompson, Cassandra Wilson e un remix dei Quantic.
Nel luglio del 2007 la Owen si è esibita al Live Earth e nell’agosto del 2006 all’Edinburgh Festival Fringe, dove ha cantato davanti a un pubblico numeroso e adorante.
La Owen fa anche parte dell’autorevole progetto «1000 Years of Popular Music» promosso da Richard Thompson. Judith Owen inoltre collabora da molto tempo con l’attore e comico Harry Shearer, messosi in grande evidenza per essere stato tra i creatori e i protagonisti più applauditi di This Is Spinal Tap e per numerose apparizioni come doppiatore dei Simpson.
Happy This Way permette di apprezzare lo straordinario talento della Owen nel far coesistere armoniosamente le melodie celtiche con elementi tratti dal jazz e dalla musica contemporanea, tratteggiando un memorabile e coinvolgente ritratto della sua terra. Tra i brani da ascoltare assolutamente va citato “Conway Bay”, che con la sua melodia nostalgica, il suo morbido tappeto di archi e le sue commoventi parole costituisce una vero e proprio capolavoro anche sotto l’aspetto interpretativo.

LINN Records

Dall’Argentina uno dei cd più belli che possa capitare di ascoltare.Si tratta essenzialmente di tanghi anche se presentati in una veste davvero unica. Forse perché il leader di questa incredibile formazione, Santiago Vazaquez, è un percussionista, forse per la scelta di classici bellissimi come Malena, Soledad, Como dos estranos e Volver, forse per la presenza della chitarra di un virtuoso come Gabriel Kirschenbaum o per i flauti di Marcel Moguilevsky, forse per la voce di Pedro Aznar celebre per le passate collaborazioni con Pat Metheny, o sarà per la concezione stessa degli arrangiamenti che spaziano dalla tradizione agli esperimenti cromatici più interessanti: ma di sicuro Serà una noche è davvero indimenticabile.

Il compact è accompagnato da una didascalia che dice in inglese: “Nessuno realmente conosce l’etimologia della parola tango. Si suppone sia un termine africano che indichi un luogo per ballare. Serà una noche, questo il titolo del compact, ma è anche il nome del gruppo dei giovani esecutori. Sono in cinque (credo tutti argentini, bravi, molto inventivi): chitarra (Gabriel Kirchenbaum), violoncello (Martin Iannacone), clarinetto (Marcelo Moguilevsky), percussioni (Santiago Vazquez, il leader), bandoneon (Gabriel Rivano), più la voce di Pedro Aznar (MA recordings, 1CD, MACD052, distribuito dalla Sound and Music di Lucca). Ascoltate per esempio il secondo brano, Soledad: l’a-solo d’apertura del cello intrecciato alla voce di Aznar; la chitarra che riprende il tema e va a sostenere la voce; infine il tessuto che si allarga alle percussioni: sono sicuro che ne sarete entusiasti.

MA RECORDINGS

Holly Cole, una delle più belle voci femminili odierne a cavallo fra jazz e il pop più sofisticato, firma il suo undicesimo album, intitolato semplicemente con il nome della stessa artista canadese. “Holly Cole” è un disco dal sapore e dai significati particolari, per realizzare il quale la brava cantante ha coinvolto nelle vesti di produttore una delle personalità artistiche più originali del panorama jazzistico, ma non solo, contemporaneo, il contrabbassista Greg Cohen. Ben noto per le sue variegate collaborazioni, in qualità di strumentista, produttore o arrangiatore, con John Zorn, Ornette Coleman, Bill Frisell, Tom Waits, Elvis Costello, Lou Reed e Bob Dylan, solo per fare qualche nome, Greg Cohen aveva già lavorato con Holly Cole ai tempi dell’album “Blame It On My Youth” (1991), e dopo un incontro con la cantante, avvenuto a Toronto un anno fa, ha accettato di buon grado l’offerta di riannodare il sodalizio.
Cohen si è quindi messo al lavoro con un’idea precisa in testa: “Volevo portare Holly in un’area musicale a lei sconosciuta. Il nuovo album doveva rappresentare una sfida”. Facendo ricorso alle proprie vaste conoscenze della scena newyorkese, Cohen ha quindi radunato per le sedute di registrazione alcuni eccellenti musicisti come il chitarrista Matt Munisteri, i sassofonisti Marty Ehrlich e Lenny Pickett e il cornista Vincent Chancey. Per gli arrangiamenti, dopo che Holly Cole ha selezionato il repertorio da interpretare, si è invece rivolto al pianista Gil Goldstein, altro musicista di grande esperienza.
Il pregevole risultato è adesso disponibile per un ascolto che regala più di una bella sorpresa: “Holly Cole” è una raffinatissima raccolta di 11 canzoni che profuma di antico possedendo nel contempo una chiara impronta moderna, in virtù di arrangiamenti tutt’altro che scontati. Ci sono standard di Cole Porter (It’s Alright With Me), di Irving Berlin (Be Careful, It’s My Heart e Reaching For The Moon), un bellissimo tema di Antonio Carlos Jobim (Waters of March) e parecchio altro ancora. E c’è pure spazio per una canzone firmata dalla stessa vocalist, Larger Than Life.
“Quando Holly canta riconsegna ogni canzone filtrata dalla sua incredibile sincerità”, dice Greg Cohen, “Holly è una delle migliori cantanti che abbiamo: ha un’intonazione e un senso delle dinamiche che poche altre cantanti di oggi possiedono”. Parole che dopo l’ascolto di “Holly Cole” non possono non essere condivise.

MA RECORDING

Holly Cole, una delle più belle voci femminili odierne a cavallo fra jazz e il pop più sofisticato, firma il suo undicesimo album, intitolato semplicemente con il nome della stessa artista canadese. “Holly Cole” è un disco dal sapore e dai significati particolari, per realizzare il quale la brava cantante ha coinvolto nelle vesti di produttore una delle personalità artistiche più originali del panorama jazzistico, ma non solo, contemporaneo, il contrabbassista Greg Cohen. Ben noto per le sue variegate collaborazioni, in qualità di strumentista, produttore o arrangiatore, con John Zorn, Ornette Coleman, Bill Frisell, Tom Waits, Elvis Costello, Lou Reed e Bob Dylan, solo per fare qualche nome, Greg Cohen aveva già lavorato con Holly Cole ai tempi dell’album “Blame It On My Youth” (1991), e dopo un incontro con la cantante, avvenuto a Toronto un anno fa, ha accettato di buon grado l’offerta di riannodare il sodalizio.
Cohen si è quindi messo al lavoro con un’idea precisa in testa: “Volevo portare Holly in un’area musicale a lei sconosciuta. Il nuovo album doveva rappresentare una sfida”. Facendo ricorso alle proprie vaste conoscenze della scena newyorkese, Cohen ha quindi radunato per le sedute di registrazione alcuni eccellenti musicisti come il chitarrista Matt Munisteri, i sassofonisti Marty Ehrlich e Lenny Pickett e il cornista Vincent Chancey. Per gli arrangiamenti, dopo che Holly Cole ha selezionato il repertorio da interpretare, si è invece rivolto al pianista Gil Goldstein, altro musicista di grande esperienza.
Il pregevole risultato è adesso disponibile per un ascolto che regala più di una bella sorpresa: “Holly Cole” è una raffinatissima raccolta di 11 canzoni che profuma di antico possedendo nel contempo una chiara impronta moderna, in virtù di arrangiamenti tutt’altro che scontati. Ci sono standard di Cole Porter (It’s Alright With Me), di Irving Berlin (Be Careful, It’s My Heart e Reaching For The Moon), un bellissimo tema di Antonio Carlos Jobim (Waters of March) e parecchio altro ancora. E c’è pure spazio per una canzone firmata dalla stessa vocalist, Larger Than Life.
“Quando Holly canta riconsegna ogni canzone filtrata dalla sua incredibile sincerità”, dice Greg Cohen, “Holly è una delle migliori cantanti che abbiamo: ha un’intonazione e un senso delle dinamiche che poche altre cantanti di oggi possiedono”. Parole che dopo l’ascolto di “Holly Cole” non possono non essere condivise.

MA RECORDING