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Bruce Cockburn, canadese, 77 anni, è uno dei grandi cantautori dell’epoca che stiamo vivendo. Autore puro, cantautore, musicista completo, Cockburn ha inciso molti dischi a suo nome ed alcuni sono grandi dischi. In questo nuovo album, il 35° della sua carriera (era dal 2017 che non faceva un disco nuovo), Bruce non perde un filo della sua forza evocativa, della sua voglia di attualità, del suo sapere narrare le cose di tutti i giorni. Con una manciata di grandi canzoni, O Sun O Moon ha dalla sua anche una bella serie di ospiti: da Shawn Colvin, Buddy Miller, Allison Russell, Sarah Jarosz a Jenny Scheinman, Viktor Krauss, Chris Brown ed altri ancora.
Se in ambito musicale la coesistenza tra sentimento, tecnica e pensiero può concorrere alla formazione di una geometria perfetta, di sicuro Igor Levit ne conquista il centro continuando a sorprendere e appassionare il pubblico. E lo dimostra anche con Tristan, il doppio CD edito per Sony Classical, dove il giovane pianista russo, naturalizzato tedesco, affronta i temi dell’amore, della morte, paura e redenzione con un repertorio che da Liszt, Wagner e Mahler, si spinge fino a Henze.
Dopo averci abituati a fare incontrare Beethoven e Rzewski, a mettere d’accordo Bach, Brahms e Feldman, il disco prende il nome dalla composizione di Henze che Levit ha affrontato dal vivo nel 2019 con l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia per la direzione di Franz Welser-Möst.
Scritto nel 1973 per pianoforte, grande orchestra e nastro magnetico, Tristan rappresenta l’omaggio al grande compositore, del quale lo scorso anno si è celebrato il decennale della morte, di uno tra i più interessanti pianisti sulla scena internazionale.
L’opera porta i segni di un periodo delicato per Henze, e vide la luce nella Venezia in cui nel 1833 morì Wagner. Dell’autore dell’opera totale, il disco accoglie il Preludio di Tristano e Isotta, il cui accordo è riconosciuto come emblema della musica moderna, qui nella versione pianistica di Zoltán Kocsis.
La sua propensione ad adattare l’orchestra sul pianoforte ne esalta le radici ungheresi e lo avvicinano inevitabilmente a Liszt, del quale Levit offre un’appassionata quanto toccante versione di Lieberstraum n. 3. L’Adagio dell’incompiuta decima Sinfonia di Mahler, invece, è reso nella trascrizione di Roland Stevenson, compositore scozzese e autore della monumentale Passacaglia dedicata a Schostakovich che Igor Levit ha inciso nel precedente CD e che continua a eseguire dal vivo così come le singole tracce di questo suggestivo disco.
Il tormento impresso nella musica di Henze, Mahler e Wagner sembra infine distendersi sulle note di Harmonies du soir, il penultimo tra gli Studi d’esecuzione trascendentale di Liszt, brano in cui la tecnica pura lascia posto ai colori del crepuscolo.
Con l’originalità che da sempre contraddistingue il suo far musica, Igor Levit consegna così un lavoro intenso, la cui complessità si discioglie unicamente nell’intima dimensione dell’ascolto.
Il nuovo album solista dal vivo del pianista e compositore Brad Mehldau presenta sue interpretazioni di nove brani di John Lennon e Paul McCartney e uno di George Harrison.
Sebbene altre canzoni dei Beatles abbiano spesso fatto parte delle sue performance da solista e in trio, Mehldau non aveva mai registrato prima d’ora nessuna delle tracce di Your Mother Should Know.
L’album si conclude con un classico di David Bowie che stabilisce una connessione tra i Beatles e i cantautori pop che seguirono.
Your Mother Should Know è stato registrato nel settembre 2020 alla Philharmonie di Parigi.

Pioniere del punk rock con gli X, cantautore, poeta, attore, artista solista…musicista folk. Con Fables in a Foreign Land, il debutto di The John Doe Folk Trio, i suoi racconti sono ora ambientati nell’era pre-industriale. E sebbene molte delle 13 canzoni siano state scritte negli ultimi tre anni, il suono è nato in rilassanti jam settimanali nel cortile di casa di Kevin Smith (Willie Nelson and Family). “Penso che ‘Fables in a Foreign Land’ sia la mia versione della musica folk. Non ho fatto un tuffo profondo nella musica folk ed occupato di ciò che era “tradizionale”, la mia è stata solo la necessità di ridurre le canzoni alle basi”. I singoli includono i contributi del poliedrico country outsider Terry Allen in “Never Coming Back”, Louie Perez dei Los Lobos in “El Romance-O”, la compagne di band Exene Cervenka e Shirley Manson (Garbage) in “Destroying Angels”.
Fat Possum“Lectures différentes” nasce da un’idea di Kebyart, un giovane ed energico ensemble spagnolo composto da quattro talentuosi sassofonisti che stanno rivitalizzando il modo in cui viene comunicata la musica classica.
Per il suo debutto discografico il gruppo ha arrangiato sfacciatamente brani del repertorio classico: dal Pulcinella di Stravinsky, una versione moderna della musica del diciottesimo secolo, alla fantasia di Joan Pérez-Villegas sulle melodie popolari di García Lorca Canciones antiguas españolas e Haydn quartetto d’archi op. 33 n. 3.
Il programma include anche la prima registrazione delle Lectures différentes di Eötvös.
L’approccio idiosincratico dei sassofoni – arricchito dagli arrangiamenti dell’ensemble – evidenzia diverse sfaccettature delle opere. La passione di Kebyart per la musica da camera e il nuovo approccio alla musica classica lo hanno portato ad essere selezionato come ECHO Rising Stars per la stagione 2021/22.
The Dark Side of the Moon, album da 50 milioni di copie grazie al quale i Pink Floyd uscirono dal «sagrato» della psichedelica britannica per imporsi come fenomeno mainstream globale, fu pubblicato l’1 marzo del 1973 sul mercato americano e il 16 marzo in Inghilterra.
A distanza di 50 anni, è tempo di grandi celebrazioni: il 24 marzo esce il cofanetto The Dark Side of the Moon 50th Anniversary che include Cd e vinile gatefold con la nuova rimasterizzazione 2023 dell’album in studio e audio Blu-Ray e Dvd con l’originale mix 5.1 e le versioni stereo rimasterizzate.
Il mondo è cambiato (e non poco) rispetto a quel fatidico primo marzo di 50 anni fa: la contrapposizione democrazie liberali-blocco comunista ha lasciato il posto a quella tra occidente e autocrazie. La gloriosa Emi non esiste più e, dal suo fallimento, il repertorio floydiano è passato a Warner Music.
Il catalogo dei Pink Floyd è in vendita, ma il dossier, stimato sui 500 milioni, non si sblocca.
Anche a causa dei punti di vista abbastanza diversi sulla guerra in Ucraina tra gli ex membri Roger Waters-David Gilmour.
Mettici poi che l’ingestibile Waters è anti-sionista convinto e la circostanza ha portato, di recente, all’annullamento di suoi concerti in Polonia e Germania.
Nonostante tutto, il vinile di Dark Side continua a piazzarsi, anno dopo anno, in posizioni di vertice nelle classifiche dei supporti fisici più venduti.
Rendiamo omaggio a questo capolavoro facendolo «a pezzi». Perché, a osservare un’opera d’arte centimetro per centimetro, c’è sempre qualcosa da scoprire. Vale anche per quello che, a oggi, è l’unico disco della storia ad aver trascorso 950 settimane nella Billboard 200.
Sempre più difficile per chi scrive di musica trovare nuovi aggettivi e termini elogiativi quando si parla di Tim Buckley, uno degli artisti più straordinari che abbiano attraversato la scena musicale a cavallo fra i Sessanta e i Settanta.
Nell’era digitale di internet, insieme a Nick Drake è probabilmente il musicista che ha ricevuto la più grande rivalutazione, oltre che molti attestati di stima da pubblico e critica che tanto gli sono mancati quando era in vita.
Sì, perché al pari del grande inglese di Tamworth-In-Arden anche Buckley ci ha lasciato molto presto, a soli 28 anni, quando aveva ancora tanto da dare al mondo della musica.
In questi ultimi anni la sua figura è diventata oggetto di culto, non più soltanto per i soliti ricercatori di gemme preziose e collezionisti di vinile ma anche per un pubblico di giovani e meno giovani che sia pur tardivamente ha scoperto una delle voci più sublimi mai ascoltate negli ultimi 50 anni.
Parte del merito di tutto questo è da ascriversi al compianto figlio Jeff che con un album come “Grace” (1994) ha fatto sì che pure il nome dell’illustre genitore venisse ricercato e riscoperto da una grande fetta di ascoltatori. Questa sorta di resurrezione musicale di Tim Buckley ha creato un vortice di interesse incredibile intorno alla sua figura al punto che adesso le pubblicazioni postume a suo nome superano numericamente quelle ufficiali, ovvero i nove album di studio incisi nel periodo 1967-1974.
Registrazione d’ottimo livello considerato che stiamo parlando del 1968, master di Bill Inglot, scelta delle covers davvero azzeccata, le esecuzioni sono d’una forza e di un pathos pazzeschi, c’è tanta improvvisazione in questi nastri e la voce del Buckley ventenne è ai suoi massimi livelli espressivi.
In “Happy this Way” la Owen rende con il suo particolarissimo senso dell’umorismo e la sua ruvida emotività un omaggio alla sua nativa Inghilterra allo stesso tempo toccante e divertente.
Coprodotti dalla Owen e da John Fischbach – l’ingegnere del suono che negli anni Settanta ha realizzato Songs In The Key Of Life, uno dei più grandi successi di Stevie Wonder – i brani di questo album spaziano dall’upbeat “Painting by Numbers” ai toni epici e alla coinvolgente melodiosità imperdibile di “Conway Bay”. Tra i momenti più significativi di Happy This Way meritano di essere segnalati le interpretazioni di Julia Fordham, Ian Shaw, Richard Thompson, Cassandra Wilson e un remix dei Quantic.
Nel luglio del 2007 la Owen si è esibita al Live Earth e nell’agosto del 2006 all’Edinburgh Festival Fringe, dove ha cantato davanti a un pubblico numeroso e adorante.
La Owen fa anche parte dell’autorevole progetto «1000 Years of Popular Music» promosso da Richard Thompson. Judith Owen inoltre collabora da molto tempo con l’attore e comico Harry Shearer, messosi in grande evidenza per essere stato tra i creatori e i protagonisti più applauditi di This Is Spinal Tap e per numerose apparizioni come doppiatore dei Simpson.
Happy This Way permette di apprezzare lo straordinario talento della Owen nel far coesistere armoniosamente le melodie celtiche con elementi tratti dal jazz e dalla musica contemporanea, tratteggiando un memorabile e coinvolgente ritratto della sua terra. Tra i brani da ascoltare assolutamente va citato “Conway Bay”, che con la sua melodia nostalgica, il suo morbido tappeto di archi e le sue commoventi parole costituisce una vero e proprio capolavoro anche sotto l’aspetto interpretativo.
Dall’Argentina uno dei cd più belli che possa capitare di ascoltare.Si tratta essenzialmente di tanghi anche se presentati in una veste davvero unica. Forse perché il leader di questa incredibile formazione, Santiago Vazaquez, è un percussionista, forse per la scelta di classici bellissimi come Malena, Soledad, Como dos estranos e Volver, forse per la presenza della chitarra di un virtuoso come Gabriel Kirschenbaum o per i flauti di Marcel Moguilevsky, forse per la voce di Pedro Aznar celebre per le passate collaborazioni con Pat Metheny, o sarà per la concezione stessa degli arrangiamenti che spaziano dalla tradizione agli esperimenti cromatici più interessanti: ma di sicuro Serà una noche è davvero indimenticabile.
Il compact è accompagnato da una didascalia che dice in inglese: “Nessuno realmente conosce l’etimologia della parola tango. Si suppone sia un termine africano che indichi un luogo per ballare. Serà una noche, questo il titolo del compact, ma è anche il nome del gruppo dei giovani esecutori. Sono in cinque (credo tutti argentini, bravi, molto inventivi): chitarra (Gabriel Kirchenbaum), violoncello (Martin Iannacone), clarinetto (Marcelo Moguilevsky), percussioni (Santiago Vazquez, il leader), bandoneon (Gabriel Rivano), più la voce di Pedro Aznar (MA recordings, 1CD, MACD052, distribuito dalla Sound and Music di Lucca). Ascoltate per esempio il secondo brano, Soledad: l’a-solo d’apertura del cello intrecciato alla voce di Aznar; la chitarra che riprende il tema e va a sostenere la voce; infine il tessuto che si allarga alle percussioni: sono sicuro che ne sarete entusiasti.
MA RECORDINGS
Holly Cole, una delle più belle voci femminili odierne a cavallo fra jazz e il pop più sofisticato, firma il suo undicesimo album, intitolato semplicemente con il nome della stessa artista canadese. “Holly Cole” è un disco dal sapore e dai significati particolari, per realizzare il quale la brava cantante ha coinvolto nelle vesti di produttore una delle personalità artistiche più originali del panorama jazzistico, ma non solo, contemporaneo, il contrabbassista Greg Cohen. Ben noto per le sue variegate collaborazioni, in qualità di strumentista, produttore o arrangiatore, con John Zorn, Ornette Coleman, Bill Frisell, Tom Waits, Elvis Costello, Lou Reed e Bob Dylan, solo per fare qualche nome, Greg Cohen aveva già lavorato con Holly Cole ai tempi dell’album “Blame It On My Youth” (1991), e dopo un incontro con la cantante, avvenuto a Toronto un anno fa, ha accettato di buon grado l’offerta di riannodare il sodalizio.
Cohen si è quindi messo al lavoro con un’idea precisa in testa: “Volevo portare Holly in un’area musicale a lei sconosciuta. Il nuovo album doveva rappresentare una sfida”. Facendo ricorso alle proprie vaste conoscenze della scena newyorkese, Cohen ha quindi radunato per le sedute di registrazione alcuni eccellenti musicisti come il chitarrista Matt Munisteri, i sassofonisti Marty Ehrlich e Lenny Pickett e il cornista Vincent Chancey. Per gli arrangiamenti, dopo che Holly Cole ha selezionato il repertorio da interpretare, si è invece rivolto al pianista Gil Goldstein, altro musicista di grande esperienza.
Il pregevole risultato è adesso disponibile per un ascolto che regala più di una bella sorpresa: “Holly Cole” è una raffinatissima raccolta di 11 canzoni che profuma di antico possedendo nel contempo una chiara impronta moderna, in virtù di arrangiamenti tutt’altro che scontati. Ci sono standard di Cole Porter (It’s Alright With Me), di Irving Berlin (Be Careful, It’s My Heart e Reaching For The Moon), un bellissimo tema di Antonio Carlos Jobim (Waters of March) e parecchio altro ancora. E c’è pure spazio per una canzone firmata dalla stessa vocalist, Larger Than Life.
“Quando Holly canta riconsegna ogni canzone filtrata dalla sua incredibile sincerità”, dice Greg Cohen, “Holly è una delle migliori cantanti che abbiamo: ha un’intonazione e un senso delle dinamiche che poche altre cantanti di oggi possiedono”. Parole che dopo l’ascolto di “Holly Cole” non possono non essere condivise.
Last Dance offre nuova musica della magica session da cui era stato tratto un paio di anni fa “Jasmine”, registrato nello studio di casa di Keith Jarrett.
In questa nuova selezione di brani Jarrett e Haden ampliano i contorni del progetto includendo classici del jazz come “Round Midnight” di Thelonious Monk e “Dance Of The Infidels” di Bud Powell. Anche questa volta ampio risalto è dato a canzoni sentimentali con magnifiche versioni di “ My Old Flame”, “My Ship”, “It Might As Well Be Spring”, “Everything Happens To Me”, “Every Time We Say Goodbye” in aggiunta a takes alternativi di “Where Can I Go Without You” e “Goodbye”, come per creare un legame ideale con “Jasmine”. “Quando suoniamo insieme, è come quando due persone cantano” dice Jarrett del suo sodalizio con Haden. La sostanza dei brani è scandagliata in profondità attraverso le sfumature di significato di una melodia o una lirica esplorata strumentalmente. Haden racconta: “Keith ascolta realmente ed io ascolto. E’ questo il segreto. Ascoltare”.
Michael Talbot, nell’articolo di riferimento che nel 1980 dedicò a Valentini (A Rival of Corelli), rendeva al fiorentino l’omaggio più avveduto. Valentini, scriveva Talbot, non era un genio, ma il più significativo compositore romano di musica strumentale della generazione postcorelliana.
I suoi Concerti op. VII furono pubblicati nel 1710 a Bologna – quindi un anno prima dell’Estro armonico di Vivaldi, che senza dubbio studiò con attenzione la struttura singolare dello straordinario Concerto a sei (il suo Allegro e solo in particolare), prima di limare le figurazioni solistiche delle parti di violino del suo Opus iii. In questa pagina eccezionale e unica, rivelata al melomane nel 1992 da Reinhardt Goebel, la nuova generazione dei 415 decifra con una fervente acutezza le singolarità di scrittura di «Il straccioncino». La selezione intelligente di altre pagine dell’op. vii, che si sottraono alla norma romana, sottolinea quanto sia sconvolto l’ordine corelliano. Se il linguaggio del concerto grosso ‘all’antica’ risorge qua e là, quante cantilene espressive che abbozzano il linguaggio solistico in gestazione (con un primo violino concertino ipertrofico), quanti riferimenti alla linfa popolare! Torelli, Albinoni, Vivaldi, Valentini s’osservano, si leggono, s’ascoltano. Preminenza cronologica dell’uno o dell’altro? Che importa! Un recital appassionante, suonato divinamente.

«Queste sonate sono uniche nel loro genere. Piene di nuove invenzioni, esse portano l’impronta dell’immenso genio musicale del loro autore. Molto brillanti, ben appropriate allo strumento, l’accompagnamento del violino è così abilmente intrecciato alla parte del violino che i due strumenti si scambiano la parola in un dialogo incessante; è per questo che esigono dai due interpreti pari virtuosismo. In realtà è impossibile fornire di queste opere originali una descrizione esaustiva; i dilettanti e gli intenditori dovranno suonarle loro stessi per constatare che non abbiamo affatto esagerato», scriveva il Magazine musical di Cramer nel 1783. Mozart non ricevette mai più in vita sua una critica così favorevole… Jos van Immerseel e Midori C. Seiler ci presentano questi capolavori con il loro approccio stilistico, fatto d’appropriazione delle regole retoriche del tempo di Mozart. La loro collazione delle fonti manoscritte e delle edizioni contemporanee (Artaria, Toricella, Hoffmeister…), porta ad una lettura ‘nuova’ di queste sonate.
Zig-Zag TerritoiresLa Variazioni Goldberg si fondano su una linea di basso discendente di otto note. Oltre ad un’aria e ad una serie di trenta variazioni, Bach ha composto su questo motivo quattordici canoni (BWV 1087), scoperti nel 1975 a Strasburgo da Oliver Alain. In aggiunta, Bach ha costruito la sua ultima variazione (la trentesima, quindi), intitolata Quodlibet, sulla linea di basso ornata di due Lieder popolari tedeschi dal titolo pieno di promesse: Cavoli e rape mi hanno fatto schivare e Sono rimasto così lontano da te. Finora nessuno aveva rintracciato questi due Lieder. Merito non secondario di questo album è quindi di permetterne finalmente l’ascolto. Per fare ciò gli artisti hanno proceduto ad una ricostruzione partendo per la musica da una bergamasca ungherese (manoscritto della fine del Seicento), e per il testo da una poesia cavata dal celebre Des Knabe Wunderhorn (antologia di Lieder tedeschi compilata da Armin e Brentano nel 1806). L’ipotesi di una vanità [?] musicale, espressa da Jean-Paul Combet, nelle sue note di copertina, si rivela tanto appassionante quanto ammissibile. In questa ricostruzione di un Lied tedesco (il primo, perchè il secondo è solo strumentale) Dominique Visse, come un attore che doppia un disegno animato, presta le sue voci (baritono leggero e controtenore) a diversi personaggi (uomo o donna, giovane o vecchio) con la verve ormai nota. Oltre al piacere della scoperta, questi due Lieder gettano una luce nuova sulle Goldberg.
Non è una lettura che colpisce alle prime note, che sbalordisce per il suo virtuosismo (anche se le dita non falliscono mai), che impressiona l’ascoltatore. Couperin, che preferiva essere commosso più che sorpreso, avrebbe apprezzato. Tutta l’abilità di Céline Frisch, lontana dall’altera insolenza di Scott Ross, dalla lezione che intimorisce di Gustav Leonhardt o dall’atmosfera febbrile di Pierre Hantai, risiede nella sua naturale spontaneità. La mente non sembra mai dettare la condotta da seguire. “Ecco. E’ così. Fatene ciò che volete”, sembra dire. Il paradosso importante di questa versione è che, sotto le dita più leggere che esistono, si manifestano le terribili difficoltà ritmiche di messa a punto verticale di questa musica. Nonostante i suoi mezzi considerevoli, Céline Frisch evita la vanteria (Variazione 4, coreografica), preferendo i gesti surrettizi (Variazione 7) agli effetti di forza, la piuma al piombo (Variazione 28, Variazione 30 senza splendore trionfante).
Uri Caine è un cannibale della musica. Dal jazz sconfina in qualsiasi genere gli venga in mente. Sono già famose le sue spregiudicate riletture o trasformazioni delle oper di Mahler, Wagner, Schumann e J.S. Bach.
Sono già famose le sue spregiudicate riletture o trasformazioni delle oper di Mahler, Wagner, Schumann e J.S. Bach. E ora è un diletto ascoltarlo al fortepiano (un Erard del 1839), con un’orchestra barocca (la Concerto Koln), reinventare a modo suo le 33 variazioni che Beethoven tirò fuori da un temino un po’ noioso e banale di Anton Diabelli.
Un valzer che non era un valzer, forse un minuetto, ma nemmeno. Nel 1819 Diabelli lo inviò a 50 compositori, pregandoli di scrivere una variazione ciascuno per un’opera colletiva.
Utilizzando i materiali a lui più familiari, blues, boogie, stride-piano, free e la sua cultura cameristica, Uri Caine usa la parodia, la critica, brutalizza e titilla il tema involontariamente comico, fino a trasfigurarlo in un teatrino dell’assurdo assolutamente contagioso. Proprio come aveva fatto il vecchio grande Ludwig van Beethoven ai suoi tempi, usando solo il piano, ma con simile, giocosa e umoristica libertà.
Nelle mani di Caine, le Diabelli variationen beethoveniane si trasformano in un piano-concerto di beffarda e tenera vitalità.
Geniale e bizzarro artista ricomparso sulla scena musicale nel 1999 con l’eccellente Extremely Cool, di lui si erano perse le tracce dopo il folgorante esordio di The Other Side of Town. Chuck è stato amico e compagno di bevute di Tom Waits sin dagli anni ’70, compagno della grande Ricky Lee Jones, anche lei tornata alla musica dopo un lungo silenzio, alla quale aveva dedicato la bellissima song Chuck E’s in Love.
Ora Weiss torna alle sue origini, al blues, soprattutto quello di New Orleans, con un album veramente sorprendente, in quanto, come tutti penso, ci si aspettava un nuovo lavoro degno della sua caratura cantautorale. Ovviamente, la sorpresa è stata ancora più piacevole in quanto il nostro rilegge il Blues, lo Swamp Rock, il Boogie e il Jazz, come solo lui avrebbe potuto fare. Atmosfere rarefatte che vengono dal passato, con riferimenti che vengono dagli anni ’40 e all’amico Tom Waits che aveva dato un notevole contributo al suo album di ritorno, brani notturni che hanno il sapore del Dixie, del New Orleans Sound e del Blues della Luisiana.
Tutti i brani sono scritti da Chuck e tutti meriterebbero una citazione, ma ricordo solo la stupenda Dixieland Funeral mirabile omaggio a New Orleans con una jazz band d’eccezione che lo accompagna.
Questo album di debutto per la cantante jazz Sarah Moule vede 14 canzoni su testi di Fran Landesman e musica di Simon Wallace. Nata a New York, ma londinese di adozione Fran Landesman è una vera sopravvissuta della beat generation e una paroliera piena di humour, con un tocco di leggera ironia , una profonda umanità ed una penetrantie visione dell’intimo umano. Le canzoni che scrisse con Tommy Wolf negli anni ’50 come “Spring Can Really Hang You Up The Most”, sono ormai diventate degli standard.
Le canzoni contenute in quest’album sono tutte state composte negli ultimi pochi anni e incorniciano il duro realismo della vita moderna. Simon Fallace ha lavorato a stretto contatto con Fran negli ultimi otto anni producendo più di trecento canzoni pur mantenendo un folto numero di impegni come pianista jazz e come compositore per gli spettacoli televisivi.
Sarah Moule, un astro nascente della scena jazz inglese, canta con un misto di swing e di sensibilità e possiede una voce di grande chiarezza e con facilità di fraseggio, che accoppiata ad una splendida dizione rende le sue canzoni decisamente indimenticabili.
Michael Talbot – Nella prefazione dell’op. 3 – la sua prima collezione di concerti edita a stampa, cui aveva attribuito il titolo di L’Estro Armonico – Vivaldi ne preannunciava un’altra, costituita questa volta soltanto di concerti a quattro parti (più il violino principale e il basso continuo), che era sua intenzione far pubblicare quanto prima. Non è chiaro quale lasso di tempo sia intercorso tra l’opera 3 e la pubblicazione della successiva. L’opera 4 non può essere apparsa dopo il 1715, dal momento che in quell’anno essa veniva pubblicizzata in un trafiletto di giornale fatto pubblicare dall’agente londinese del suo editore di Amsterdam, Estienne Roger.
Il compositore dedicò i concerti ad un ex-allievo, il patrizio Vettor Delfino, ovvero «Dolfin», secondo la forma veneziana del suo cognome. Il padre di Dolfin, Piero, era uno stimato librettista strettamente legato alla corte di Hannover, mentre gli interessi musicali del suo figlio cadetto Marc’Antonio sono documentati dalla sua appartenenza al più importante sodalizio musicale veneziano, l’Accademia Filarmonica.
Di Vettor sappiamo soltanto che eccelleva nel gioco di carte denominato «bassetta», grazie al quale riuscì a guadagnare una fortuna. È ben vero che nella dedica Vivaldi tenta di esaltare l’abilità musicale del suo allievo (per il quale egli scrive di essere stato più un compagno che un maestro), tuttavia la lode non finisce di convincere.
I dodici concerti derivano una certa unità stilistica da una qualità cui si fa allusione nel loro titolo collettivo: La stravaganza. È necessario interpretare questo termine nel suo stretto significato etimologico, quello di ‘deviazione’ dal sentiero più battuto. A Venezia (e più generalmente in Italia) esisteva fra i conoscitori di musica il culto del ‘bizzarro’, del deliberatamente strano. Questo tratto ricorre con maggiore frequenza nella musica vocale profana, dove la presenza di un testo letterario può fornire giustificazioni esterne per effetti ricercati, ma informa di sé anche la musica strumentale. La ‘stravaganza’ di Vivaldi consiste per qui lo più nel ricorrere a modulazioni estranee, nonché ad intervalli melodici insoliti.

Nato a Modena il 18 luglio 1670, Giovanni Bononcini è il più vecchio e più conosciuto dei tre figli di Giovanni Maria Bononcini (1642-78). La giovinezza di Giovanni Bononcini è difficile: orfano della madre a sette anni e del padre a otto anni, egli visse quindi in estrema povertà, come ricorda nella dedica della sua op. 3. Tuttavia, Giovanni Bononcini poté contare sull’appoggio dei mecenati che prima sostenevano il padre. Dopo aver cominciato i suoi studi musicali con quest’ultimo, Giovanni Bononcini li proseguì in un primo tempo a Modena, sostenuto da Francesco II, duca di Modena, poi a Bologna dove studiò composizione e violoncello incoraggiato dal mecenate Alessandro Sanvitali. Riconosciuto assai presto come un eccellente violoncellista e compositore, a quindici anni egli pubblica la sua op. 1 e a sedici anni entra all’Accademia Filarmonica. Sempre a Bologna, nel 1687-88, fa parte della cappella di San Petronio come cantore e violoncellista, e, simultaneamente, è nominato maestro di cappella a San Giovanni in Monte, fino al 1689. Invitato dal duca di Modena, Francesco ii d’Este, Giovanni Bononcini passa un anno a Milano, dove ha l’incarico di scrivere per il suo protettore un oratorio, La Maddalena ai piedi di Cristo (1690). Lo stesso anno è membro dell’orchestra del cardinale romano Benedetto Pamphili. Dopo questo breve soggiorno a Milano, il giovane compositore si stabilisce nel 1692 a Roma, al servizio della famiglia Colonna. Questo soggiorno romano segna una svolta nella carriera di Bononcini. Incontra Silvio Stampiglia che diventa quindi il suo librettista. Dalla loro collaborazione nascono sei serenate (fra cui La nemica d’Amore fatta amante), un oratorio e cinque opere che gli assicureranno la sua fama di compositore e di uomo di teatro. In particolare, due opere hanno segnato la collaborazione del compositore e del poeta-librettista: il Xerse (1694), che sarà ripreso da Georg Friedrich Haendel nel suo Serse nel 1738, e Il trionfo di Camilla, presentata la prima volta a Napoli il 27 dicembre 1696 e ripresa 64 volte al Theatre Royal Drudy Lane di Londra , fra il 1706 e il 1709. È nel 1697, alla morte del suo protettore, Filippo Colonna, che termina il suo soggiorno romano. È all’epoca del suo primo soggiorno romano (1692-97) che Giovanni Bononcini compone la maggior parte delle sue cantate (quasi trecento), che gli assicurano una notorietà internazionale. A Roma si trova Alessandro Scarlatti, il più importante compositore di cantate all’inizio del Settecento. Una parte di queste cantate – commissionate perlopiù da principi, cardinali, diplomatici ma anche da accademie come quella dell’Arcadia – prendevano il nome di «Serenate» quando erano eseguite alla sera. Le prime sei Serenate – commissionate a Giovanni Bononcini tutti i mesi d’agosto per il compleanno di Lorenza Colonna, moglie del suo protettore – sono stata scritte tra il 1692 e il 1697 in collaborazione con Silvio Stampiglia, e sono all’origine del suo successo internazionale. La nemica d’Amore fatta amante è stata eseguita la prima volta all’aperto il 10 agosto 1693: Giovanni Bononini ha allora appena 23 anni. L’accompagnamento orchestrale di La nemica d’Amore fatta amante è particolarmente ricco. La Sinfonia introduttiva è composta alla maniera del concerto grosso, con un’alternanza di soli e di tutti. Le arie cominciano e terminano con dei ritornelli strumentali. Oltre alla ricerca d’equilibrio fra l’orchestra e i cantanti, si può anche rilevare la valorizzazione degli strumenti solisti, come nell’aria di Tirsi «Pur ti riveggio ancor», con violoncello solista – di cui Giovanni Bononcini conosceva così bene tutte le possibilità.
ZIG-ZAG
“Per Gianmaria, La tua voce s’arrampica a un balcone, soffia all’amato le parole da dire all’affacciata. La tua voce è Cyrano nascosto nel giardino che insegna al maschile smemorato come bussare a un bacio di ragazza. Sono sillabe di pioggia, da levarsi la giacca e appoggiarla sulle spalle scoperte di una donna, una delle poche mosse sacre in dote a un uomo. Le tue canzoni servono a un ragazzo per improvvisarsi uomo, servono a un uomo per tornare ragazzo. Una donna sospira:fosse vero. Finché canti è vero e poi per altri cinque minuti dura l’effetto di raccolta dei frantumi maschili; stanno di nuovo insieme l’adulto e il rompicollo. Finché canti ecco di nuova una sagoma d’uomo nella stanza, al bavero ha messo il fiore dell’ortica, in cima alla camicia una farfalla vera. Allaccia il braccio attorno alla ragazza, accenna a un valzer, lo rigira in tango, splende la coppia, numero chiuso sigillato a musica. Profumo di balli di una volta la tua canzone di oggi. Uomo e donna accostano gli zigomi per fingere di dirsi una parola, si odorano i capelli, accostano il respiro alla curva del collo. I balli di una volta permettevano abbracci con la scusa di una danza in pista. Niente altro che amori, polpa scoperchiata da un coltello che scortica, sbuccia, e sotto, il frutto è bianco. Solo amori, il loro passo a due disturba, distoglie: due innamorati vanno, dietro a loro si accodano le occhiate di noialtri soldati costretti dentro i ranghi, invece di sbandare, sbottonare il colletto e darsi a correre. Niente altro che fiori, compratene un mazzetto, portatelo sudati, trafelati alla creatura preferita, amata”. Altre latitudini, registrato nel mese di maggio 2003 in Italia e masterizzato a Londra, vede la presenza di 14 musicisti (v. Discografia). Dopo il minimalismo chitarra e voce de Il Valzer di un giorno, Gianmaria Testa ritrova in questo disco il piacere della varietà di suoni. Piero Ponzo (che aveva già collaborato a Montgolfières) cura gli arrangiamenti di corde e fiati. Sarà presentato in concerto a Parigi e Torino nel mese di Novembre (v. Agenda). Sul palco, insieme a Gianmaria, ci saranno Enzo Pietropaoli (contrabbasso), Piero Ponzo (sax e clarinetto) e Philippe Garcia (batteria e percussioni).
Le Chant du Monde Harmonia Mundi distribution
Si è sempre raccontato che i pezzi che compongono KIND OF BLUE sono stati registrati di getto: non corrisponde a verità. Questo mito lo ha smentito definitivamente il giornalista del << New York Times >> , Ashley Kahn che ha potuto ascoltare le registrazioni originali custodite in tre nastri delle sessioni effettuate il 2 marzo ed il 22 aprile 1959 in una chiesa greco ortodossa sconsacrata di New York. e riadattata dalla Columbia a sala di registrazione ( pare che questa chiesa avesse un’acustica perfetta: piena di legno ed elementi caldi e sembrava risuonare in sintonia con gli strumenti). Con il suo libro pubblicato in Italia da “Il Saggiatore”, Ashley Kahn racconta nel dettaglio tutte le fasi della preparazione del disco che ha cambiato il corso della storia del Jazz, e non solo. Miles Davis si preparava da anni ad avere come compagni di viaggio Julian “Cannonball” Adderley, Paul Chambers, il bassista Jmmy Cobb ( l’unico vivente che firma la prefazione del libro ), Winton Kelly e, soprattutto John Coltrane e Bill Evans. I titoli dei brani furono scelti dopo l’ esecuzione dei pezzi; MilesDavis non dava peso a questi aspetti e, per più di trent’anni la musica delle prime tre tracce risultò – causa un difetto di uno dei due master – leggermente più alta di un quarto di tono, corretta poi successivamente con l’avvento del CD. l libro prosegue commentando con dovizia di particolari i momenti creativi del disco. Le foto testimoniano il clima della storica sessione. Le note di copertina del disco furono scritte praticamente di getto da Bill Evans e rappresentano non solo una guida preziosa per capire quella musica ma un autentico manifesto del jazz modale. Una curiosità: i musicisti vennero pagati a tariffa sindacale. 64 dollari a sessione; << KIND OF BLUE >> è il disco jazz più venduto della storia; se ne vendono ancora oggi in media 5.000 copie la settimana solo negli USA.
ColumbiaQuesta registrazione riunisce tutti i “Concerti” di Vivaldi contenenti parti obbligate per Viole da gamba, indicate nei manoscritti originali con i termini Violoncelli e Viole (o Violette) “all’inglese”. A queste magnifiche opere si affiancano il Concerto in fa maggiore per violino e violoncello, il Concerto in si minore per quattro violini e violoncello, e i Concerti in re minore e in sol minore, in cui la parte del violoncello è eseguita con la viola da gamba.
Gli autografi originali conservati nella Biblioteca Nazionale di Torino ci mostrano la straordinaria inventiva di questo compositore nel creare impasti timbrici e nello sviluppo di un linguaggio concertante virtuosistico che spazia dall’elegiaco Concerto Funebre in si bemolle maggiore sino allo scintillante Concerto per molti Istromenti in do maggiore.
Vivaldi e la viola da gamba sono due termini che fino ai tempi più recenti sono stati raramente accostati. Non sapevamo forse, dalle testimonianze di André Maugars del 1639 e di Thomas Hill del 1657 che la viola, ancora fiorente a nord delle Alpi, era ormai diventata uno strumento quasi estinto in Italia – sostituito dal violino basso, che, costruito in dimensioni di poco più piccole, con corde rivestite e intonazione modificata, sarebbe in pochi decenni diventato il violoncello?
E non era forse Vivaldi un compositore ultra-progressista, che avrebbe storto il naso verso una simile reliquia del passato?
Eppure tra le centinaia opere di Vivaldi che ci sono rimaste (oltre 800 secondo i calcoli più recenti), ce ne sono cinque che comprendono parti per uno strumento che il compositore chiama “viola inglese”, “viola all’inglese” o (in un caso) “violoncello all’inglese”. Questa “viola inglese” o “viola all’inglese” non è sicuramente un membro della famiglia del violino suonato in una maniera particolare – accordi di cinque e sei note in una di queste opere tolgono ogni dubbio al riguardo – ma se non lo è, che cos’è allora?
Alia Vox AV9835

Chiara Banchini – La registrazione nel 1989 della prima parte delle sonate dell’op. v di Arcangelo Corelli, cosiddette «da chiesa», è stata per me una riscoperta. Lontana dall’interpretazione standardizzata insegnata nei conservatori, queste sonate assumevano per me un aspetto inedito grazie agli abbellimenti, alle articolazioni e al basso continuo che si illuminavano sotto le dita esperte di Jesper Christensen. Questo sforzo di rimessa in questione dei miei primi vent’anni di violino moderno m’ha permesso di scoprire tutte le sfaccettature d’un compositore che passa inosservato, quasi sconosciuto nel curriculum scolastico. Dopo venticinque anni di carriera barocca, Corelli continua ad accompagnarmi. Ed è con grande gioia che ho scoperto qualche anno fa che Francesco Geminiani aveva scritto la sua versione orchestrale delle Sonate dell’op. v. Fin dalla prima lettura con l’Ensemble 415, il nostro entusiasmo ci ha convinti che questa trascrizione era sicuramente l’opera di un grande violinista e compositore. Il nostro piacere ha forse eguagliato quello dei musicisti che avevano scoperto questa versione a Londra. Abbiamo appena registrato i concerti di Valentini con l’idea di far suonare come solisti i membri dell’ensemble. Abbiamo quindi deciso di rinnovare questa avventura. Credo che il risultato confermi la giustezza della scelta. Risuonare queste sonate nella loro versione orchestrale è stata per me una scoperta a ogni istante. Geminiani le abbellì pur rispettando il testo del suo maestro. La sua intenzione era doppia: rendere omaggio a Corelli e mettere la sua opera alla portata dei violinisti dilettanti. Il solista è allora libero di arricchire la partitura. Per gli abbellimenti, abbiamo scelto quelli che si avvicinano maggiormente alla scuola di Geminiani che a quella di Corelli. Fra i numerosi scritti sulla musica, Geminiani – violinista imprevedibile, “furibondo” come diceva Tartini – ci ha lasciato una magnifica Scuola del violino. Vi si trovano delle spiegazioni molto precise sugli abbellimenti della sua scuola, che abbiamo seguito. Per qualche sonata utilizziamo l’organo, con un vero registro principale di 8 piedi, allo scopo di arricchire ulteriormente la sonorità dell’orchestra. Spero che il piacere e la meraviglia vissuti a ogni istante appaiano in questa registrazione che offre a ciascun musicista sia il ruolo di solista di ‘concertino’, sia quello di musicista di ‘ripieno’.
ZIG-ZAG
Il soggiorno a Napoli di Johann Joachim Quantz, flautista insegnante di Federico il Grande e autore di un famoso trattato, fece riscoprire ad Alessandro Scarlatti la dignità degli strumenti a fiato. Dopo aver ascoltato Quantz l’anziano compositore napoletano decise di dedicare al flautista delle Sonate, ma sopratutto stimolò giovani musicisti napoletani a scrivere per il flauto. A differenza dello strumento di Quantz il flauto “traversiere”, i brani furono destinati al flauto dolce, che a Napoli aveva maggiore diffusione. Come mostra il DVD, in questo progetto Maurice Steger è attorniato da specialisti del repertorio, dando vita a un appassionante cenacolo che, sia con impegno sia festosamente, si è riunito intorno a codeste musiche. Musiche di Domenico Sarro, Alessandro Scarlatti, Nicola Fiorenza, Domenico Scarlatti, Francesco Barbella, Francesco Barbini, Leonardo Leo.

Forse l’aspetto più importante della musica di Micahel Nyman è che richiede poche spiegazioni. Può essere interessante notare che Taking a line for a second walk ebbe origine nel 1986 come lavoro orchestrale per lo Houston Ballet, o che Water Dances – scritto in origine per il film di Peter Greenway Making a splash e presentato qui per la prima volta nella sua forma in cinque movimenti – è derivato in parte da una progressione di accordi tratta da un madrigale di Monteverdi. Come la migliore musica classica, jazz o pop, la produzione di Nyman non sopporta un’analisi più accurata: il segreto del suo fascino non sta nel campo dell’accademia, quanto piuttosto nella sua capacità di parlare ad un pubblico ampio e culturalmente diverso. Nyman è una delle figure chiave di un innominabile movimento che ha rivoluzionato la musica classica contemporanea negli ultimi vent’anni. La musica ‘colta’ ha subito una svolta radicale, e sono apparsi compositori con la capacità tecnica e la sicurezza di dimostrare che è possibile scrivere una nuova musica, progressista e impegnata, senza alienare una larga parte degli ascoltatori di musica classica, attraendo nel contempo un pubblico ancor più ampio, interessato al rock e al pop. In effetti questo gruppo di compositori ha smantellato le barriere che si riteneva esistessero fra i mondi della musica classica e popolare; ma nessuno ha giocato un ruolo più grande di Michael Nyman nel superare questa linea di demarcazione. Egli ha combinato Purcell e Mozart, il rock ‘n’ roll degli anni Cinquanta, antichi testi sumerici quasi femministi, la squadra di calcio dei Queens Park Rangers e innumerevoli altre fonti musicali e culturali, per produrre uno stile compositivo che è romantico, eclettico, talvolta caotico, ma unicamente suo.
Le musiche popolari composte da Mikis Theodorakis contribuirono al successo del film “Zorba il Greco” ormai passato alla storia anche grazie all’interpretazione straordinaria di Antony Quinn in veste di un personaggio “più grande della vita”.
Tratto da un romanzo di Nikos Kazantzokis (1822-1957), il film narra di un giovane scrittore inglese a Creta, il quale fa amicizia con un personaggio Greco artefice di innumerevoli mestieri che gli trasforma la vita…
Sono passati 40 anni dall’uscita del film e per celebrare l’anniversario la casa discografica DECCA in occasione dei giochi olimpici di Atene 2004 presenta un disco contenente la suite ballet di Zorbas , 3 Pieces da Carnaval e, come inizio l’Adagio per solo flauto, orchestra d’archi e percussioni.
Charles Dutoit con l’Orchestra Sinfonica di Montreal (Zorbas) e l’Orchestra Filarmonica di Londra (Carnaval) rilegge e attualizza l’opera di Theodorakis portando così alla luce l’identità della Grecia moderna.
Un interpretazione ed esecuzione musicale che mantiene inalterata la tradizione della musica greca, capace di trasmettere emozioni di una terra che ha dato al mondo personaggi come Omero, Socrate, Eschilo, Pericle e tanti altri. Una registrazione esemplare.

“Mulatos” è il titolo del nuovo album di Omar Sosa. Un titolo rivelatore dei contenuti di un disco che si pone come autentico crocevia multietnico. “Mulatos”, dice infatti lo stesso pianista cubano, “è un incontro fra culture diverse, un incrocio, una fusione di razze e tradizioni. È una festa di ritmi, note e colori”. Omar Sosa, la cui notorietà si sta ormai consolidando anche in Italia, sull’onda di frequenti apparizioni concertistiche, lo ha registrato a Parigi il 18 e 19 gennaio 2004, coinvolgendo, appunto, musicisti di differente nazionalità: il tunisino Dhafer Youssef (oud), il marocchino Aziz Arradi (guembri, qarqabas, voce), i francesi Renaud Pion (clarinetto) e Philippe Foch (tabla, bowl), il tedesco Dieter Ilg (contrabbasso) e l’inglese Steve Argüelles (batteria). Ospite in tre brani (al clarinetto) è poi il celebre sassofonista cubano Paquito D’Rivera. Nell’occasione Sosa, oltre al pianoforte, ha suonato vari altri strumenti (Fender Rhodes, harmonium, marimba, vibrafono, percussioni). “Mulatos” è un album a molte facce, un caleidoscopio ritmico e sonoro ma anche un concentrato di senso poetico. Afferma in proposito Steve Argüelles, produttore del disco. “E’ un disco concepito come un film. Ogni idea musicale è stata rappresentata per ottenere il massimo del risultato, che fosse una semplice melodia, un ritmo curioso o un tocco di elettronica sparso qua o là. E’ un disco ricco di sonorità da scoprire attraverso ripetuti ascolti. E racconta la storia artistica di Omar: il suo rapporto con il jazz, con i ritmi afro-cubani e la spiritualità con il pianoforte”. “Mulatos” è, dunque, il perfetto ritratto di una mente musicale aperta, di un artista disponibile a recepire influenze diverse per interiorizzarle e restituirle filtrate dalla propria spiccata sensibilità.

Alcuni album jazz – pochi – possono vantare un’influenza, un successo di critica e di pubblico contro i quali il tempo non può nulla. Nel 1964 il leggendario sassofonista John Coltrane ne creò uno, in una sola session. A Love Supreme è ricerca interiore, espressione dell’inesprimibile, ingresso prepotente della religiosità nel jazz, sperimentazione musicale, contaminazione di jazz modale, blues, gospel, tradizione indiana, poliritmia africana, bebop: pietra miliare in musica.La genesi di un capolavoro di tale risonanza è una combinazione irripetibile di tempi, luoghi e persone. Per raccontarla Ashley Kahn, come già per Kind of Blue di Miles Davis, ha raccolto le testimonianze di musicisti, produttori e amici. Compresi i protagonisti dell’incisione: il pianista McCoy Tyner, il tecnico del suono Rudy Van Gelder. E quelli che non ci sono più: lo stesso Coltrane in alcune interviste inedite, il contrabbassista Jimmy Garrison e il batterista Elvin Jones, scomparso di recente, al quale Kahn ha voluto dedicare il commosso ricordo che apre l’edizione italiana. Oltre cento immagini sono la scenografia di questo viaggio nel mito, sapiente miscela di biografia, analisi musicale, storia dell’America anni sessanta. I neofiti scopriranno un mondo affascinante, gli appassionati i segreti di un album che ha infranto le barriere dei generi musicali portando il messaggio di “un amore supremo”.

Shlomo Mintz, uno dei più eminenti musicisti del nostro tempo, debutta su Avie con due importanti progetti discografici: un cofanetto di 3 CD con l’integrale dei concerti per violino più la Sinfonia Concertante per violino e viola e il Concertone per due violini di Mozart; e uno di 2 CD con l’integrale delle sonate per violino e viola di Brahms. Per tutta la sua carriera esecutiva e discografica, Mintz è stato strettamente legato ad entrambi i compositori, eppure queste due produzioni indagano molto sul nuovo territorio per l’artista. Per la sua prima registrazione della Sinfonia Concertante di Mozart (su RCA), raccolse una nomination al Grammy; i concerti per violino e il Concertone sono nuovi nella sua discografia. Del Concerto per violino di Brahms ha realizzato con Claudio Abbado una registrazione (su DG) acclamata dalla critica; il nuovo cofanetto rappresenta la sua prima registrazione delle sonate per violino e viola del compositore.
AVIEDurante il XVII e il XVIII sec. la città di Napoli è stata uno dei centri musicali più importanti d’Europa; seconda solo a Parigi per numero di abitanti la città brulica di teatri, amatori e mecenati. I suoi conservatori possono vantare i migliori insegnanti e i teatri mettono in scena opere dei più celebrati compositori dell’epoca (il giovane e ancora sconosciuto Mozart esprimerà come massima ambizione lo scrivere un’opera per il S. Carlo).
Nicola Antonio Porpora, Leonardo Leo, Nicola Fiorenza e Nicolò Sabatino sono tra i più importanti musicisti attivi a Napoli nella prima metà del secolo, tutti svolgeranno il doppio ruolo di compositori ed insegnanti e dalle loro classi usciranno alcuni tra i migliori cantanti e strumentisti napoletani.
Si può affermare con una certa sicurezza che la grande epoca virtuosistica del violoncello prenda il via proprio da Napoli: violoncellisti compositori del calibro di Francesco Alborea, più noto come Francischiello, Francesco Scipriani, Salvatore Lanzetti, Andrea Caporale, Pasquale Pericoli, per citare i più conosciuti, sono napoletani.
Musicisti che porteranno la loro tecnica raffinata e la sensualità del loro strumento nelle numerose corti europee che visiteranno nella loro carriera. I primi esempi di esercizi per lo strumento si trovano proprio a Napoli (Francesco Scipriani, toccate e sonate per apprendere a suonare il violoncello, manoscritto e destinato ai suoi alunni), da dove si evince l’altissimo grado di virtuosismo raggiunto nella città.
Oltre a questo si nota la presenza di numerosi nobili dilettanti, tra cui il più celebre fu il Duca di Maddaloni, dedicatario dei concerti di Leonardo Leo e Nicola Fiorenza; altri grandi compositori scriveranno per il suo strumento (su tutti Giovanni Battista Pergolesi con una mirabile Sinfonia per violoncello e basso continuo e Nicola Porpora con una sonata).

Kremer fa le cose benissimo, quando vuole. Dal Festival di Lockenhaus, il suo centro di musica da camera tra i monti dell’Austria, fa uscire l’ultimo Quartetto di Schubert, delicato e ardito, messo in catalogo tra le tante pagine lasciate come cartafacci in vita, abbandonati sotto il povero letto, e presentato dall’originale veste da camera alla più estesa forma per orchestra.
Firmata da Victor Kissine per la bella Kremerata, una delle giovani formazioni di giovani strumentisti più interessanti e di pregio, per slancio e grinta, erede della Camerata Salzburg ai tempi di Vegh.
Registrato nella chiesa parrocchiale di San Nikolaus, col suono ECM smaltato e diretto, in assoluto dei più belli, Schubert ci parla nell’orecchio, coi suoi temi a pastello, in confidenze dolcissime.
Le sue malinconie le conosciamo, lui non smette di girarci intorno, declinandole in tutte le possibili sfumature in questo <

La carriera di Mozart si divide abbastanza nettamente in due parti: prima e dopo il gennaio 1779, data del ritorno a Salisburgo dopo il suo viaggio a Mannheim e a Parigi. Aveva allora ventitrè anni. Due anni più tardi, si stabiliva a Vienna, per passare la maggior parte del suo ultimo decennio di vita. A parte alcune eccezioni, le sue più grandi opere si trovano tutte nella seconda parte della sua esistenza. Fino al 1781, effettuò numerosi viaggi, ma la città natale, Salisburgo, rimase il suo porto sicuro. Delle quattro opere che compongono il programma di questo disco, le due più antiche furono composte a Salisburgo, le altre due a Vienna una decina di anni più tardi. Tre di esse si situano sotto il segno della notte, che va intesa non nel senso romantico, ma in quello che gli dava un certo XVIII secolo, che applicava il termine Notturno a pagine dei generi del “divertimento” o della “serenata”, suonati per lo più, ma non necessariamente, la notte o la sera. Sia le due opere di Salisburgo che quelle di Vienna formano una coppia, anche se in modo molto diverso.
Alia Vox
Cantante e scrittrice che ha a lungo vissuto nell’Est europeo Lola Lafon è l’autrice di un romanzo, “Resterò in piedi e non avrò paura”, pubblicato anche in Italia da Piemme, che è stato un vero e proprio successo letterario. Nel romanzo, con una forte connotazione autobiografica, la protagonista Landra vissuta nel disagio esistenziale tra la Romania (ai tempi della dittatura di Ceausescu) e la Bulgaria viene catapultata nella realtà totalmente diversa di Parigi, dove ad un senso di vertigine per la libertà tanto sospirata si aggiunge un accresciuto disagio per la peggiore delle violenze che una donna può subire. Landra/Lola che sente ormai esplodere dentro di sé un forte sentimento di rabbia entra in contatto con il movimento no global e con le sue frange più estreme, va a vivere in uno squat e partecipa a manifestazioni contro tutto e tutti, ma fa anche un’altra cosa: scrive e canta canzoni. I forti sentimenti provati dalla protagonista sono gli stessi incanalati nelle canzoni di “Grandir A’ L’Envers De Rien” disco d’esordio di Lola Lafon ed il suo gruppo, Leva. La particolare strumentazione (chitarra, basso, fisarmonica, percussioni, campionatori) la dice lunga sugli orientamenti musicali che lo contraddistinguono. Lola, svezzata musicalmente ascoltando musica tradizionale balcanica, il rock dei Rolling Stones, Patti Smith e Jeff Buckley lascia confluire tutto ciò in un album che fonde la purezza del folk con l’energia del rock in una maniera assolutamente originale, ne è un esempio emblematico la sua personale interpretazione del classico stonesiano “Paint it black”, in una manciata di canzoni di rara intensità espressiva ed efficacia comunicativa.
Alia Vox
Molti, moltissimi sono i dischi attraverso i quali la magia e l’arte di Ali Farka Touré sono arrivate al grande pubblico, capolavori come The River, o il bellissimo The Source, in cui il musicista del Mali offre il meglio della sua creatività musicale. Ma c’è un album, realizzato nel 1994 che è e resta un gioiello splendente nella sua produzione, Talking Timbuktù,inciso in California, a Santa Monica, assieme a Ry Cooder. Il disco che all’epoca vinse il Grammy come miglior album di world music dell’anno, è una sorta di magico viaggio nello spazio e nel tempo, perchè pur mantenendo intatta la sua attualità ci riporta con straordinaria semplicità alle radici del blues, la musica che è alla base dell’incontro tra i due musicisti. Accanto ad Ali Farka e a Ry Cooder ci sono altri personaggi eccellenti: Jim Keltner alla batteria, John Patitucci al basso, Clarence Brown alla viola, Hamma Sankare al calabash, il grandissimo Oumar Touré alle congas. Ali Farka suona chitarra, banjo, njarka e percussioni, canta in quattro lingue (songhai, bambara, peule e tamashek) e rende l’atmosfera dell’album sognante e meravigliosa, permettendo a melodie e ritmi di fondersi con il respiro e il battito del cuore. I dieci brani dell’album, tutti firmati da Touré, non sono cartoline esotiche per viaggiatori pigri, ma la perfetta cronaca di un incontro tra culture e suoni apparentemente lontani, uno, scambio di emozioni e sentimenti che passa attraverso l’armonia e l’improvvisazione. E l’inconfondibile voce di Ali Farka domina con leggerezza il racconto che si snoda davanti a noi con grande fascino, muovendosi dalle strade del Mali a quelle della California e tornando ancora una volta indietro passando per il centro del mondo. Talking Timbuktù è un disco affascinante e unico, uno di quegli album che una volta ascoltati non è più possibile dimenticare, perchè ricchi di una musica che in qualche modo ci appartiene, perchè costruito con la materia di cui sono fatti i sogni.

“La prima idea di questa raccolta di melodie incomincia a prendere forma alla fine del 2001, ed è la ricerca incosciente di un antidoto spirituale contro il drammatico e crescente conflitto di civiltà che acquista tanto protagonismo nel momento dell’esplosione della guerra in Afghanistan. Orient – Occident nasce soprattutto dalla volontà di mettere in comune, in spirito di solidarietà, esperienze musicali e musicisti di diverse culture e religioni, ma anche per ricordare altri tempi in cui anche in Occidente fummo operatori di intolleranza e barbarie. Finalmente, dopo quattro anni, il progetto Orient – Occident si presenta nella forma di uno stimolante dialogo tra musicisti orientali ed occidentali, ottenuto attraverso gli strumenti e le musiche dell’antica Esperia cristiana, giudea e musulmana, le stampitte dell’Italia medievale e le improvvisazioni e danze di Marocco, Israele, Persia, Afghanistan e dell’antico Impero ottomano. Musiche apparentemente lontane nel tempo e nello spazio, musiche frequentemente dimenticate sotto successive ondate di modernismo o sottovalutate a causa delle loro origini incerte. Danze, preghiere, canzoni e lamenti di rara bellezza ed intensa emozione che, con la loro levità, ci liberano da ceppi pesanti e da isolamenti evitabili. Melodie e danze che nascono dalle carezze dell’arco della viella e dalla fermezza della lira italiana, dai ritmi e dai tocchi dei liuti del Marocco e d’Israele, dai pizzicati del salterio dell’Iran e della chitarra moresca della Turchia, dell’accattivante tulak e del turbolento rabé dell’Afghanistan, sostenute e avvolte sempre dall’impulso vitale e allo stesso tempo magico delle indispensabili percussioni ancestrali.”
Alia Vox
“Sull’onda di un’inquietudine a tratti nervosa scorrono le ultime pagine pianistiche di Johannes Brahms suonate da Elisabeth Leonskaja, dal fraseggio parlante, pieno di sussulti e sospiri. C’è una forte impronta russa nell’interpretazione della Leonskaja, nata a Tiblisi e formatasi al Conservatorio di Mosca, ma residente a Vienna da quasi trent’anni, evidente nei sussulti di vitalità repressa della Fantasia op. 116 n. 2 come nel fraseggio della Fantasia op. 116 n. 6, tutto scatti ed attese. La tecnica è solida senza essere particolarmente aggressiva, le sonorità sono sempre contenute, anche perché la registrazione (del dicembre 2004) è stata effettuata su uno splendido grancoda Steinway del 1901, dal suono particolarmente dolce. È proprio la dolcezza la seconda caratteristica di queste interpretazioni, una dolcezza intima e pensosa nella quale sarebbe difficile rinvenire la malinconia desolata che altri pianisti hanno saputo cogliere in queste estreme pagine brahmsiane. Il tocco poco incisivo della Leonskaja contribuisce a creare un’atmosfera fatta di delicate velature; una grazia inattesa sboccia nella Fantasia op. 116 n. 5 ed anche l’ultimo, desolato Intermezzo dei Klavierstücke op. 118 conserva un calore emotivo che è un segno di fiducia nella vita. Si può discutere a lungo se sia opportuno lasciare evaporare la desolata nostalgia e la macerazione emotiva dell’ultimo Brahms in una dolcezza che a volte (nel terzo dei Klavierstücke op. 119, per esempio) sconfina in un’innocenza lieve. L’importante – crediamo – è che una lettura, per quanto insolita, riesca ad essere coerente con se stessa.”
MDG
La Venexiana è attualmente riconosciuto quale miglior gruppo madrigalistico in attività. Rifacendosi alla commedia anonima da cui prende ispirazione il proprio nome, La Venexiana intende eleggere a componente distintiva della propria interpretazione musicale la teatralità, l’attenzione alla parola in tutte le sue sfumature, l’esaltazione dei contrasti fra colto e popolare, sacro e profano, caratteristica della nostra cultura. La Venexiana, guidata dal direttore Claudio Cavina, si è guadagnata numerosi riconoscimenti grazie ad una sviluppata discografia, dimostrando anche nei numerosi concerti eseguiti in tutto il mondo di essere tra i migliori complessi italiani specializzati nelle proposte di musica italiana del XVII secolo. La collaborazione con l’etichetta discografica spagnola GLOSSA MUSIC ha dato vita , a partire dal 1997, alla collana Il Madrigale Italiano, che prevede la pubblicazione di 12 CD dedicati al repertorio madrigalistico italiano di ‘5-600. Il debutto, affidato alla pubblicazione del Terzo Libro di Madrigali di Sigismondo D’India, ha immediatamente ricevuto il prestigioso Diapason d’Or della critica francese. Si sono succeduti poi il Settimo Libro di Madrigali di Claudio Monteverdi, il Quinto Libro di Madrigali di Luzzasco Luzzaschi e il Nono Libro di Madrigali di Luca Marenzio (Diapason d’Oro francese del mese di Novembre, Disco del mese di Dicembre delle riviste Repértoire, Luister e Goldberg, PREMIO DELLA FONDAZIONE CINI 1999 PRIX CECILIA 1999): con questi prestigiosi riconoscimenti La Venexiana è stata proclamata “Nuovo Orfeo” del repertorio madrigalistico italiano. Con l’incisione del Quarto Libro di Madrigali di Gesualdo da Venosa La Venexiana ha ricevuto il PREMIO AMADEUS 2001 ed il prestigiosissimo GRAMOPHONE AWARD 2001. Uscite successive sono state il Primo Libro di Madrigali di Sigismondo D’India (10 di Repértoire e Gramophone Editor Choice), il Sesto Libro di Madrigali di Luca Marenzio (PREMIO AMADEUS in Spagna), il Terzo Libro di Madrigali di Claudio Monteverdi, (recentemente insignito del GRAND PRIX DU DISQUE ACADEMIE CHARLES CROSS), la Gerusalemme Liberata di Giaches de Wert, Disco del Mese in tutte le riviste specializzate francesi. Nuovo ambizioso progetto discografico è la registrazione dell’ Integrale dei Madrigali di Claudio Monteverdi, che sarà completata nel 2006. La Venexiana si è esibita nei più prestigiosi Festival internazionali: dal MusikVerein di Vienna a De Singel di Anversa, a Barcellona,Valladolid, Strasbourg, Amiens, Parigi, Saintes, Karlsruhe, Melk, Fribourg, Utrecht, Regensburg, Bruxelles, Bruges, Bogotà, New York, San Francisco, Tucson, San Diego, Seattle, Chicago, San Pietroburgo. La Venexiana ha creato un nuovo stile per la musica antica italiana, che và al di là di una semplice interpretazione musicale, ma unisce alla retorica, al testo, alla declamazione, un gusto tutto mediterraneo. Registrato nella Chiesa di San Carlo, Modena, dal 2 al 6 febbraio 2006.

Hélène Schmitt dedica la sua nuova registrazione a delle sonate inedite di Schmelzer, riscoperte di recente negli archivi della British Library, degne della definizione di «più eminente violinista di tutt’Europa» attribuita al suo tempo al virtuoso viennese. Müller, cancelliere alla corte di Weimar, citò nel suo Reise-Diarium del 1660 «il celebre e più eminente violinista di tutt’Europa». Da allora in poi il musicista in questione, benché celebrato al suo tempo, è stato quasi completamente dimenticato: Johann Heinrich Schmelzer, Kape“Dopo una visita alla corte imperiale di Vienna, Johann Sebastian llmeister alla corte imperiale, straordinario virtuoso del violino, compositore e insegnante, diede un decisivo contributo alla musica tedesca di metà Seicento. Le opere qui presentate sono tratte da varie fonti. Due sonate (Sonata IV in re maggiore, Sonata V in do minore) appartengono alle Sonatae unarum fidium del 1664. Altre tre brani (le Sonate in la minore e in si bemolle maggiore e la Sonatina in sol minore) provengono da una raccolta conservata alla British Library e scoperta di recente. Quest’ultima raccolta non riporta alcun nome, ma lo stile e diverse altre caratteristiche rimandano chiaramente a Schmelzer, e due sonate (nn. III e VI) figurano anche nelle Sonatae unarum fidium. La Giga Pfefferstossl per violino senza accompagnamento si trova nei manoscritti di Klagenfurt e Vienna, e la Ciaccona in la maggiore è conservata a Vienna.” Una registrazione di qualità ineccepibile.
Alpha
…”la bellezza di Whirlpool non può essere separata dal calore, dalla chiarezza e dall’immediatezza della sua resa sonora John Taylor si conferma artista di spicco della CAM Jazz firmando “Whirlpool”, secondo album inciso in trio con il contrabbassista Palle Danielsson e il batterista Martin France, dopo “Angel of The Presence” del 2005. Oltre che con questi due lavori, il pianista inglese è presente nel catalogo dell’etichetta italiana con il solitario “Songs and Variations” e con “Where Do We Go From Here?”, in duo con Kenny Wheeler, figurando anche in due dischi a nome dello stesso trombettista e flicornista anglo-canadese, “What Now?”, insignito nel 2005 di una Grammy Nomination, e del nuovissimo “Other People”. Da segnalare è, inoltre, “Pure And Simple”, intestato alla Guildhall Big Band e interamente costituito da composizioni di John Taylor, che vi compare come special guest. “Whirlpool” riporta inevitabilmente alla mente il celebre trio di Bill Evans con Scott La Faro e Paul Motian: a quello storico gruppo, oltre che allo stile pianistico dello stesso Evans, John Taylor fa esplicito riferimento, ma mettendoci parecchio di suo, ad iniziare dalla classe cristallina con cui sfiora i tasti del suo strumento. Tre delle otto composizioni del CD sono di Kenny Wheeler (Consolation, Nicolette e Everybody’s Song But My Own) e altrettante del pianista (la title track, For Aida e The Woodcocks). Completano il quadro la gershwiniana I Loves You Porgy, di cui Bill Evans regalò memorabili interpretazioni, e il canto natalizio In The Bleak Midwinter di Gustav Holst. E proprio partendo dal materiale tematico selezionato per l’occasione, “Whirlpool” è un concentrato di sensibilità musicale: il leader e i due partner costituiscono un’entità inscindibile, così come lo era il grande trio di Bill Evans. Una menzione doverosa va alla qualità della registrazione, effettuata nell’ottobre 2005 ai Bauer Studios di Ludwigsburg: come osserva giustamente Thomas Conrad nelle note di copertina, “la bellezza di Whirlpool non può essere separata dal calore, dalla chiarezza e dall’immediatezza della sua resa sonora”. John Taylor, nato a Manchester nel 1942, John Taylor ha iniziato a distinguersi nel vivace scenario jazzistico britannico sul finire degli anni Sessanta, suonando nei gruppi dei sassofonisti Alan Skidmore e John Surman. Nei primi del decennio successivo ha accompagnato la cantante Cleo Laine e costituito un proprio sestetto. Sempre di quegli anni sono i primi dischi nelle vesti di leader, “Pause and Think Again” (1971) e “Decipher” (1973), nonché la collaborazione con il sassofonista Ronnie Scott. Nel 1977 John Taylor ha quindi fondato il trio Azimuth, assieme a Kenny Wheeler e a Norma Winstone. Seguiranno numerose incisioni sotto varie leadership (Wheeler, Surman, Jan Garbarek, Miroslav Vitous, Peter Erskine) e da ricordare è pure il fecondo sodalizio con la nostra Maria Pia De Vito.
Cam Jazz
Il fatto che “The Strad”, la più importante rivista nel campo degli strumenti ad arco, abbia paragonato l’elegante stile esecutivo Quartetto di Cremona a un abito firmato Armani e abbia elogiato con i massimi termini le loro interpretazioni di Mozart e Brahms, rappresenta per i quattro giovani italiani una distinzione paragonabile a una specie di titolo aristocratico. Non meno importante il confronto con il leggendario Quartetto Italiano, il cui violista, Piero Farulli, ha svolto un ruolo fondamentale nella biografia musicale dei quattro giovani: Farulli ha fornito a questi ragazzi il migliore esempio in assoluto di ciò che significa la passione per la musica e la serietà con la quale i musicisti devono dedicarsi alla loro arte se intendono formare un vero quartetto. Per i quattro artisti la colonna portante della loro collaborazione è, come lo definiscono loro, l’impegno personale nei confronti di un obiettivo comune. E’ l’impegno che consente loro di ritrovare ogni volta l’energia e la passione per dedicarsi ad ogni nuovo brano musicale con la medesima intensità e serietà. Sia i musicisti dilettanti che quelli professionisti sono spesso concordi nella loro valutazione dei quartetti per archi di Haydn, sebbene per motivazioni diverse: i primi li eseguono perchè sono brani che richiedono un impegno molto intenso; i secondi perchè si sentono in obbligo di studiarli seriamente. Per i dilettanti più ambiziosi, gli 80 quartetti scritti da Haydn nell’arco di 50 anni sono brani ideali da godersi durante una serata musicale con amici, magari leggendoli a prima vista e accompagnandoli con un buon bicchiere di vino. E alcuni musicisti di professione li scelgono spesso come “comodo” pezzo introduttivo per iniziare un concerto nell’ambito di un ciclo di concerti di abbonamento. In entrambi i casi la scelta è dovuto al fatto che sono apparentemente facili da suonare, “innocui”, per così dire, e gradevoli: sono questi gli attributi ancora oggi associati ai quartetti di Haydn quando vengono eseguiti con le suddette motivazioni. Il fatto che queste composizioni, non diversamente dai concerti e da gran parte delle sinfonie di Haydn, siano state composte per diletto di un ristretto numero di aristocratici, non impedisce a queste composizioni di sorprenderci e affascinarci ancora oggi. Ben diverso è il discorso per quanto riguarda i sei quartetti di Béla Bartok: sono spesso fuori dalla portata dei dilettanti per via della loro complessità, per l’eccessiva difficoltà tecnica e per la loro “modernità”. Talvolta pongono difficoltà persino ai professionisti e risultano difficili anche per complessi di altissimo livello che dispongono di una routine ben consolidata. Ma cosa accade se i quartetti di Bartok vengono intesi come una relazione tra musicisti e ascoltatori, esattamente come Haydn aveva concepito il quartetto? E cosa accade se, invece di inserire per così dire “il pilota automatico” nel momento in cui sul leggio è presente un brano di Haydn, quest’ultimo viene preparato e interpretato con la medesima serietà e meticolosità che si dedica alla musica di Bartok?
Genuine Classics
Vijay Iyer, americano di origine indiana, laureato in Fisica a Yale e autodidatta del pianoforte, con questo disco si conferma uno dei più originali ed intelligenti artefici del jazz moderno. Non c’è nulla di già sentito in questo suo piano solo: undici tracce, di cui sei cover e cinque composizioni originali, caratterizzate da una carica innovativa prorompente. L’apertura è affidata a una rielaborazione/rivoluzione ritmica e armonica di “Human Nature”, omaggio al pop di Michael Jackson. Viaggiamo poi immersi nelle dissonanze di “Epistrophy”, di Thelonius Monk. Con un abile gioco di mascheramento del tema, prima solo accennato per pochi secondi, eppure sempre supposto, latente eppure così presente da creare attesa, questa musica ci sorprende, per la sua imprevedibilità, per l’assunzione di direzioni divergenti, non conformi. Iyer applica una metamorfosi profonda anche a “Black and Tan Fantasy”, capolavoro di Duke Ellington del periodo jungle del Cotton Club, catapultandola nella contemporaneità, segno di una riappropriazione dei valori creativi degli standard. E questo accade anche nella seconda composizione di Ellington presente nel disco, “Fleurette Africain”, cupa, misteriosa, riflessiva, come un’introspezione mistica su temi universali. La capacità di passare da una ferocia espressiva veemente a un lirismo delicato e profondo, in una completezza linguistica che ha il sapore del genio: questa una delle prerogative di questo disco, simbolicamente dedicato ai grandi maestri di Iyer, da Ellington e Monk, appunto, a Sun Ra, Cecil Taylor, Steve Coleman, Andrew Hill. Tra le composizioni di Iyer “Autoscopy” è quasi un manifesto. Come Iyer spiega in prima persona nelle note di copertina, il riferimento del titolo del brano è a quella possibilità che la musica occasionalmente offre, nell’atto del suonare, di osservare se stessi quasi dall’esterno, sia a livello di gesto che di intenzione. E questa intenzione, mutevole e complessa, ha il dono del trasformismo di brano in brano, in passaggi bruschi e imprevisti dal tonale all’atonale, dal minimalismo alla ridondanza espressiva, da squarci impressionistici, che rimandano a certa musica contemporanea, alla poliritmia tipica della musica indiana, che Iyer non cita come atmosfera tipica, come nota di colore, ma che piuttosto risiede, metabolizzata, nelle strutture compositive. Pionieristico nel colore e nel suono, ardito nella concezione armonica, intelligente, dotato dell’eccellenza del talento ben coltivato, esempio della perfetta assimilazione della tradizione finalizzata alla rielaborazione, Vijay Iyer dimostra di meritare ampiamente il premio come “musicista dell’anno” che l’American Jazz Journalists Association gli ha attribuito.
ACT Egea DistributionAlla corte del re di Prussia, alla metà del XVIII secolo, l’estetica della scuola di Berlino, e Johann Gotlieb Janitsch come uno dei suoi membri, ricercava soprattutto la bellezza della melodia. E tuttavia, la produzione artistica di questo periodo luminoso della storia della musica nel nord della Germania è sprofondato nell’oblio.
Antichi Strumenti risponde alla domanda di riabilitare la musica di questo compositore in gran parte sconosciuta nel loro obiettivo di restituire il linguaggio musicale del XVIII secolo prendendo ispirazione dalle pratiche orchestrali di Darmstadt.
In questo modo si combinano senza mai inimicarsi i due stili del secolo delle luci, il contrappunto e lo Stile Galante. Il merito delle sei sinfonie di Darmstadt presentate in questo disco si deve alla trascrizione fatta da Christoph Graupner.
Con questa prima registrazione inedita si ottiene il raro piacere di trovare repertori dimenticati ma di scoprire Janitsch attraverso le sue sinfonie.
Un genere musicale che ricorda musica da camera sottile presentato con approccio sensibile di antichi strumenti.

Vi sono luoghi incontaminati dove ne eventi naturali catastrofici ne l’irrazionale sentimento umano di onnipotenza possono intaccarne la bellezza e la cultura. Uno di questi luoghi magici è la Louisiana, un luogo dove mille culture si sono ritrovate e anziché scontrarsi si sono arricchite a vicenda dando luogo a ritmi , suoni e suggestioni davvero unici. Ed è un bene che nella “palude” sia finalmente arrivato anche il nostro Eric. Lo abbiamo visto lo scorso anno in tour in Italia e ne abbiamo potuto provare di persona non solo l’indiscussa conoscenza del blues, la capacità scenica e la buona tecnica di esecuzione chitarristica , ma soprattutto la grande umanità e umiltà che ne fanno un vero blues man.
Cypres
Questo tributo raccoglie i momenti salienti della carriera di Montserrat Figueras usciti sulle etichette Astrée, DHM, EMI e naturalmente Alia Vox. Cinque delle 35 tracce erano riapparse in un album ritratto pubblicato negli anni Novanta da Astrée e già intitolato La voce dell’emozione. Jordi Savall ha voluto mantenere lo stesso titolo per questo album doppio, molto più ampio. Perché la voce di Montserrat Figueras era come una colorazione, una messa in vibrazione del silenzio. Non aveva un timbro e una tecnica da “cantante” nell’accezione più corrente del termine: il suono, senza vibrato, non era ampio ma portava lontano, fendendo con un tratto liscio e netto i grandi ambienti acustici. E questo timbro, così malinconico e dolente, riconoscibile tra tutti, sembrava scivolare sul silenzio. Osiamo servirci di un’espressione riferita all’olio, che l’avrebbe sicuramente fatta ridere di quel riso cristallino che aveva a fil di labbra: la sua voce era quella di un soprano ‘extra vergine’, florale, piccante ma morbida e oleosa. Col passare degli anni, Montserrat Figueras aveva conservato le stesse qualità di colore, di tenuta e, soprattutto, di fascino. Ricordando, perché ne era la duplice incarnazione, che la radice latina della parola ‘carmen’ significa sia ‘fascino’ che ‘canto’. Questa selezione di registrazioni di Montserrat Figueras è dunque un omaggio indispensabile, un doppio album che abbraccia i differenti ambiti del repertorio in cui ella è eccelsa, dalle melodie sefardite e dalle profezie ossessive della Sibilla alle raccolte di canzoni polifoniche del rinascimento iberico e alle affascinanti melodie del repertorio della vihuela spagnola, dal clima devoto e intenso dei capolavori di Guerrero o di Victoria alle squisite monodie accompagnate scritte da Monteverdi o da Merula, dal fascino e dalla vivacità ritmica del tono humano degli inizi del barocco spagnolo fino al suo equivalente più tardo, del tempo di Goya e delle guerre napoleoniche, all’alba del romanticismo. Per coloro che già amano Montserrat Figueras, questo album sarà come un catalogo, organizzato con cura e con amore, della sua carriera e della sua musica. Per coloro che scopriranno qui, per la prima volta, la sapienza e l’emozione che trasmettono la sua voce e il suo talento, sono certo che sarà un momento di scoperta indimenticabile di colei che è stata una delle artiste più autentiche e appassionanti nel mondo attuale della musica antica.
I The Last Bison, sono gruppo americano proveniente da Chesapeake, Virginia, in circolazione dal 2010, e con un album già all’attivo (Quill del 2011).
La particolarità di questa band è quella di essersi formata in famiglia, fra le mura domestiche: fratelli e amici che hanno sempre suonato insieme per divertimento e che un bel giorno hanno pensato di dare una continuità a quell’estemporanea passione.
Il leader è Ben Hardesty (voce e chitarra), affiancato dai fratelli Dan (mandolino, banjo e chitarra) e Annah (voce e percussioni), dalla famiglia Benfante (i fratelli Andrew, organo, e Jay, batteria) e da due amici, Teresa Totheroth al violino e Amos Housworth al cello.
Un gruppo affiatato, quindi, in cui le consolidate relazioni affettive si riverberano in modo magico, e non potrebbe essere diversamente, sulla musica suonata. Vi accorgerete infatti ascoltando questo Inheritance quanto non solo sia solido l’impianto compositivo delle canzoni, ma soprattutto quanto i brani, siano essi lenti o più accelerati, vengano pervasi da un entusiasmo contagioso e ingenuo (uso il termine nella sua accezione più nobile).
C’è voglia di suonare insieme e piacere nel farlo, voglia di scrivere canzoni con cui si possa far festa e divertirsi, oppure che sappiano toccare il cuore e commuovere. Ascoltare questa musica è come ricevere un abbraccio : si percepisce un sincero affetto e un genuino trasporto. Il disco, poi, cresce di ascolto in ascolto, si fa scoprire lentamente e dalla superficie del primo acchito emergono suoni e sfaccettature compositive con cui i The Last Bison dimostrano di non essere proprio un gruppo di spovveduti alle prime armi.
Se la base del progetto sono le radici folk, è altrettanto vero infatti che Ben Hardesty e soci arricchiscono la proposta plasmando il suono e riempiendolo di sfumature pop, improvvisi stacchi, repentine accelerazioni e inaspettati inserti d’archi dal sapore cameristico.
Canzoni del livello Switzerland e Dark Am I sono di un nitore accecante, superano i canoni del genere e proiettano i The Last Bison verso un futuro da grande band.
Come degli Arcade Fire, ma meno pretenziosi, come dei Decemberist, ma meno prolissi, come dei Mumford & Sons, ma meno adolescenziali.

Con un prestigioso cofanetto multimediale i Berliner Philharmoniker ricordano Claudio Abbado a due anni dalla scomparsa. Il maestro, alla guida dell’orchestra dal 1989 al 2002, in tempi recenti tornò ogni anno a maggio per tre attesissimi concerti. Nel 2013, l’ultima volta che salì sul podio della Philharmonie, la diresse in un programma che riuniva due opere romantiche che poco hanno in comune. All’idilliaco Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn- Bartholdy la bacchetta di Abbado conferisce freschezza e trasparenza luminosa. Perfino la Marcia Nuziale qui si presenta in una nuova luce. Nella Symphonie fantastique di Berlioz il sogno si trasforma presto in un incubo. Pur sempre con approccio elegante, il direttore e la sua formidabile orchestra esplorano gli abissi terrificanti di questa sinfonia monumentale, caratterizzata da bruschi cambiamenti di colori e dinamica, fino al delirante Sogno di una notte di Sabba. Nel cofanetto pubblicato da Berliner Philharmoniker Recordings, la propria etichetta discografica dell’orchestra, l’ultimo concerto di Abbado è disponibile in cd nonché in video su un Blu-ray disc che contiene anche una versione “pure audio” (24-bit / 48 kHz). Tra i materiali bonus un raro documentario che parla del primo anno di Abbado in veste di direttore principale 1989/1990, con stralci di prove e concerti, interviste e riprese realizzate nei giorni della caduta del Muro.
Corina KolbeNel 1416, Alfonso V, conosciuto come “Il Magnanimo”, salì al trono d’Aragona. La sua ispirazione fu quella di rafforzare la presenza catalano – aragonese nel mediterraneo e di creare un autentico impero. Dopo essersi garantito il controllo della Sardegna, Corsica e Sicilia intraprese la conquista di Napoli e, trascorsi 10 anni il 6 giugno 1442 entrò in città nominandola capitale dei suoi domini.
La gloria della corte catalano – aragonese di Napoli fu’ breve; ciò nonostante gli anni di signoria aragonese rappresentarono un effettivo evento culturale. Anziche’ cercare l’omogeneità, Alfonso Il Magnanimo proseguì l’obiettivo opposto, facendo convivere guasconi, borgognoni, franco-fiamminghi, tedeschi, castigliani, catalani ed italiani. La Musica che naturalmente occupava una posizione culturale centrale era caratterizzata da una totale pluralità linguistica di compositori e da una grande diversità stilistica legata all’esecuzione di un repertorio musicale sorprendentemente eterogeneo.
L’oggetto di questo doppio album è il Canzoniere di Montecassino, codice conservato nell’Abbazia omonima. Esso include composizioni sacre e profane scritte tra il 1430 ed il 1480. Il manoscritto riflette le molteplici attività dei complessi che dovevano far fronte tanto ai servizi religiosi quanto alle esigenze private dei nobili dai quali dipendevano.
L’esecuzione che ne da’ la Capella Reial de Catalunya diretta da Jordy Savall è superba. Ripresa molto naturale.
Alia Vox AV9816

Charles Koechlin ricevette l’insegnamento di Fauré e di Massenet e molto forte fu l’influenza del suo stile raffinato, austero e misurato sui suoi allievi, tra cui figurarono Tailleferre e Poulenc. Koechlin fu un compositore straordinariamente prolifico e originale, ammirato da molti colleghi compreso Darius Milhaud. Eppure la sua produzione non è stata largamente apprezzata e di fatto molte sue opere – comprese quelle qui registrate – non furono mai pubblicate durante la sua vita. Questo disco contiene la prima registrazione delle Etudes per sassofono e pianoforte e una prima – in questa versione – delle Pièces per sassofono e pianoforte di Koechlin. Si tratta della prima registrazione dell’integrale delle opere per sassofono di Koechlin. Federico Mondelci è internazionalmente riconosciuto come uno dei più rilevanti sassofonisti classici della sua generazione. Si è prima diplomato al conservatorio Statale di Musica G. Rossini di Pesaro e poi in Francia al Conservatorio Superiore di Bordeaux sotto la guida di Jean-Marie Londeix. Da allora Mondelci è apparso solista per le più impoeratnti Orchestre, tra le quali l’Orchestra Filarmonica del Teatro alla Scala diretta da Seji Ozawa e all’estero negli Stati Uniti d’America, in Europa, Giappone e Russia.
Con la memoria si possono passare giornate meravigliose, più propositive di un progetto, più luminose del futuro in una giornata di sole e di ottimismo. Le condizioni perché avvenga il miracolo è che si avverta la spinta elevatrice di questa memoria e non si cada nel gioco della citazione compiaciuta.
Di passati imbalsamati ce ne sono fin troppi.
Cooder è il Billy Wilder della musica popolare. Guardando indietro traccia la via per ciò che seguirà. Come Wilder ha fatto film di qualunque genere, così Cooder ha inciso i dischi più diversi. I loro segreti, inquietudine e curiosità, comapattati dal collante di un immenso talento.
Per registare con Manuel Galban, il leggendario leader dei Los Zafiros, è tornato a Cuba, e probabilmente non l’ha trovata cambiata dagli anni di Buena Vista. E’ cambiato lui in compenso, meno speleologo e gerontoiatra, più musicista vero e proprio. Triste e allegro, Mambo Sinuendo è uno straordinario spaccato di motivi pre-castristi resi alla perfezione con arrangiamenti fedeli agli originali, vibranti, abbaglianti di bellezza non solo chitarristica.
Patricia su cui giocava Perez Prado, Secret Love che cantò Doris Day, tutti temi d’accompagnamento che solo la greve passività dell’ascolto contemporaneo può associare alla piatta, indistinta offerta del lounge, al dilagare delle banalità delle shaker song da spiaggia.
Questa musica strumentale, quasi tutta strumentale, è la rivincita di un intero mondo umiliato dagli abusi discografici dell’ultimo lustro.
E’ un ammonimento, un invito, un’occasione imperdibile per riprendersi quello che la logica del mercato ha mestamente ridotto a barzelletta. La musica vera non serve a rinfrescare gli ambienti estivi.
L’idea e il titolo che hanno ispirato questa registrazione spiega Jordi Savall, nascono dal ricordo dell’appassionato discorso di abdicazione pronunciato da Carlo V il 25 maggio 1556 nel salone del castello di Bruxelles. Aiutandosi solo di breve note scritte su di un foglio, l’Imperatore passò in rassegna le circostanze più importanti della sua vita.
Ricordare in due ore di musica le esperienze essenziali della vita di Carlo V, ed al tempo stesso accostarci ad alcuni momenti così eccezionali della nostra storia moderna, sono obiettivi che potremo raggiungere soltanto attraverso le musiche più rappresentative che ascoltarono ed amarono i protagonisti del suo tempo.
Saranno dunque musiche di corte, le musiche spirituali ed anche le musiche del popolo, quelle che ci guideranno tra luci e ombre segnate dall’Umanesimo, dal Rinascimento, dalle scoperte e dalle guerre. Musiche provenienti da tutte le aree del Mediterraneo.
La ripresa sonora è da considerarsi un riferimento. Entusiasmanti i fiati e le percussioni.
Alia Vox AV9814
In confronto alla sua musica sacra (che comprende un celebre Miserere a 8 parti molto apprezzato da Verdi e da Wagner), alle sue numerose opere (più di trenta opere serie e più di venti commedie musicali) e ai diversi oratori, il catalogo puramente strumentale di Leonardo Leo conta un piccolo numero di titoli.
Esso comprende brani per tastiera, sonate a tre, un concerto per quattro violini e, soprattutto, i sei concerti per violoncello, archi e basso continuo scritti nel 1737-1738 ad uso esclusivo di Domenico Marzio, Duca di Maddaloni <>, come scrisse Leo sul frontespizio del manoscritto.
Caraffa, che aveva alla proprie dipendenze anche Giovanni Battista Pergolesi, era mecenate di Leo e dilettante di violoncello, è quindi affascinante supporre che questi sei capolavori furono composti per assecondare una commissione del Duca.
In effetti di capolavori si tratta.
Leo fu uno dei compositori a liberare il violoncello dal vecchio ruolo di basso continuo e a prendere in considerazione la sua intensa sonorità con una quantità di melodie espressive e cantabili che non ha eguali nel repertorio concertistico per violoncello prima di Leo. Forse soltanto Pergolesi, di sedici anni più giovane di Leo, raggiunse simili risultati nella sua Sinfonia per violoncello e basso continuo, anch’essa destinata probabilmente al Duca di Maddaloni.

Questo disco è stato “highly reccomended” dalla giuria del Premio Internazionale del Disco “A. Vivaldi” per la musica italiana, nella categoria musica strumentale. Poco si sa di Giuseppe Valentini, salvo che cominciò la sua carriera a Roma e che fu compositore, violinista e poeta. La sua musica divenne estremamente popolare in tutta Europa, fu pubblicata a Londra, Parigi e Amsterdam. Il titolo delle Sette Bizzarrie per Camera, pubblicate come op. 2 intorno al 1706, si riferisce sia alle caratteristiche nuove ed originali della musica sia all’indeterminatezza della strumentazione, perchè Valentini lascia agli esecutori il compito di fare le loro scelte. Pur non presentando nulla di veramente “bizzarro”, questi brani sono comunque interessanti in virtù della loro varietà tonale e formale. Ciascuna delle Sette Bizzarrie contiene un certo numero di brevi movimenti che si succedono costantemente schema lento-veloce. Particolarmente interessante è la Quarta Bizzarria collocata al centro della raccolta. La terza Bizzarria presenta una straordinaria successione di otto sezioni ed è quindi naturalmente predisposta per i contrasti esecutivi appariscenti. Nel complesso la musica di Valentini mostra l’influenza di Corelli con l’aggiunta di qualche allusione a Vivaldi. I membri dell’Aura Musicale svolgono bene il loro compito e affrontano questi lavori con entusiasmo. La ripresa sonora della Hungaroton asseconda il timbro luminoso e sottile degli strumenti.
Hungaroton Classic
Intervista a Jordi Savall, Tous Les Matins du Monde, dieci anni dopo. Dieci anni dopo la sua uscita, il ritorno di Tous le matins du monde con Alia Vox è un avvenimento importante per lei? Si. E’ molto importante simbolicamente, recuperare la proprietà e la diffusione di un progetto che abbiamo sviluppato noi e che ha dato origine ad una delle registrazioni di musica antica che hanno segnato un’intera epoca. D’altra parte, si tratta di un programma e di un’interpretazione che sono stati realizzati dopo un grande lavoro di preparazione, una minuziosa attenzione ai dettagli, una riflessione molto approfondita sull’interpretazione della musica francese di quell’epoca ed in modo del tutto particolare sulle tecniche e lo stile nell’esecuzione alla viola da gamba. Il risultato è una registrazione che, dieci anni dopo, resta piena di poesia e di una grande freschezza. Che cosa ha motivato la scelta del programma del disco regalo <>? Ci è parso interessante accompagnare il disco originale con una serie di nuovi pezzi, per orchestra e per viola solista, precedute dalla famosa Marche pour la cerimonie des Turcs. Tutti questi pezzi registrati dopo il 1999 per Alia Vox, sono stati realizzati con una cura del tutto particolare all’interpretazione ed al suono. Vi si ritrovano anche la versione completa di alcune opere come il Prelude (Fantasia) en mi mineur che si può considerare attualmente come uno dei più begli autoritratti del misconosciuto Mr. De Sainte Colombe figlio, o ancora l’integrale delle Folies d’Espagne di Marin Marais nell’edizione rivista dall’autore nel 1701. Che insegnamento trae da questa esperienza unica? Innanzi tutto, si deve essere coscienti che l’interpretazione di una musica di un risultato più umano e più ricco di significato quando essa è strettamente legata alla vita, perché è questa vita – anche se si svolge in un mondo fittizio – che ci aiuta ad approfondire il senso dell’emozione. Avevamo coscienza di una situazione eccezionale che ci obbligava a cogliere, più che mai, tutti i momenti magici di ciascuna musica per farne il valido contrappeso all’immagine; è così che, per inserire perfettamente la musica nella sceneggiatura del film, durante la registrazione Alain Corneau ed io discutevamo continuamente, sulla base del testo di Pascal Quignard, della situazione e del contesto umano di cui la musica doveva divenire l’evento centrale, ed il suo significato nella vita dei diversi personaggi. E’ in questo modo che ho preso coscienza della differenza di coinvolgimento e d’emozione che ci poteva essere tra suonare La Reveuse in concerto, “in astratto”, anche nei giorni più ispirati, ed il fatto di immaginare Marin Marais suonarla lui stesso per l’ultima volta per la giovane Madeleine morente. Dieci anni dopo, sono avvenuti cambiamenti nel suo modo d’interpretare la musica antica? Ci sono sempre dei cambiamenti nell’interpretazione e nella visione delle opere. Ogni giorno noi affrontiamo le cose in modo differente; è una legge fondamentale del rinnovarsi della vita, ed è particolarmente valida per quel che riguarda l’interpretazione della musica. E’, direi, una condizione imprescindibile di qualsiasi approccio artistico davvero creativo. Detto questo, e nonostante reali differenze di tempo e di carattere nella nuova interpretazione di taluni pezzi – come nella Marche pour la cerimonie des Turcs -, credo che il disco di Tous le matins du monde conservi una modernità ed una spontaneità assolutamente rimarchevoli, anche dopo 10 anni. Non avrei mai immaginato lo straordinario stimolo che poteva dare questa esperienza all’evoluzione dell’approccio interpretativo, grazie al ponte che stabiliva tra una musica dimenticata e l’espressione vivente di un’arte fondamentale del nostro tempo come il cinema.

Il nome del vostro ensamble, CAFE’ ZIMMERMANN, fa riferimento a Bach, poiché è lì che, a seconda della stagione, Bach e il suo Collegium Musicum si esibivano a Lipsia. Come si è costituita questa formazione? Innanzitutto, tengo a precisare che non sono né la direttrice, né la capa di di questo ensamble strumentale che gravita attorno a qualche musicista “permanente” come Diana Baroni (traversiere), Paolo Valetti (violino), Petr Skalka (violoncello) e Lufek Brany (contrabbasso). Ci siamo conosciuti tutti all’epoca dei nostri studi alla Schola Cantorum di Basilea, dove già ci capitava di suonare tra noi. Il gruppo ha preso forma verso il 1998, allorché abbiamo cominciato a lavorare regolarmente. L’Accademia Bach di Arques-la-Battaille e l’etichetta Alpha si fanno carico dei costi di produzione, delle prove e dei concerti. Nata a Marsiglia nel 1974, Céline Frisch ha studiato clavicembalo al conservatorio di Aix-en-Provence e alla Schola Cantorum di Basilea con Andreas Staier e Jesper Cristiansen. E’ con altri musicisti della Scola Cantorum che ha fondato il CAFE’ ZIMMERMANN.
Alpha 013
Questa registrazione della Sesta Sinfonia di Mahler è stata fatta da un’esecuzione (14 settembre 2001) programmata molto tempo prima che gli avvenimenti dell’11 settembre dessero straordinaria risonanza al programma scelto dalla San Francisco Symphony. Naturalmente dobbiamo stare molto attenti a collegare una vera e propria tragedia con una registrazione di una sinfonia “tragica”. Merito quindi sia di Michael Tilson Thomas sia dell’Orchestra, che questa feroce esecuzione non solo sostenga quel peso non indifferente, ma che lo faccia senza isterismo o autocompiacimento. I tempi sono staccati in modo assennato. Nel primo movimento per esempio, l’ Allegro energico ma non troppo di Tilson Thomas è solo un pelo più lento di quello di Bernstein nella sua registrazione con la Vienna Philarmonic, eppure la differenza è sufficiente per dare alla marcia una forza particolare. In effetti gli archi della San Francisco Symphony scavano molto in profondità per produrre un suono scuro e gutturale, di una sorprendente veemenza. Il tema di “Alma”, suonato con fuoco e fraseggiato con generosità, fornisce una gradita consolazione. <> a mo’ di di sparo dei timpani introducono lo Scherzo, qui scolpito seccamente con pungenti ritmi puntati. I Trii sono similmente punteggiati e percorsi in modo piuttosto prudente, come una danza dimenticata da tempo e ora ricordata con andamento lento. Anche l’Andante moderato, è trattato con esuberanza, ma la tensione non si abbassa mai, grazie soprattutto alla naturale propensione di Tilson Thomas per il flusso e riflusso della musica. Notate, ad esempio, come Egli osservi coscienziosamente le numerose modificazioni di tempo nel passaggio culminante cominciando da b. 59 (12’30”), cavando la maggiore tensione possibile dal <> a bb. 152-153, eppure nessuno di questi tira e molla suona esagerato. Certo è difficile immaginare un esordio più impressionante dell’integrale di Mahler curato da Tilson Thomas e dalla San Francisco Symphony. Meno lezioso di Bernstein e più emotivamente coinvolto di Karajan, si tratta di un’esecuzione eccezionalmente intensa e, date le circostanze, notevolmente coerente, che non deve passare sotto silenzio. La qualità della registrazione è molto buona, curata dalla nuova etichetta prodotta nell’ambito dell’orchestra.